Non importa quali
obiettivi raggiungi. Quando sei uno scalatore c'è sempre un'altra montagna
(Meredith Grey).
Sono circa le 20.00 quando varchiamo la soglia del Rifugio Torino. Dopo undici ore, la tensione volta a mantenere alta la concentrazione, finalmente, si scarica. Nel volto cotto dal sole è dipinta la soddisfazione, l’ennesima, di questo 2016, per aver coronato un sogno: salire il Dente del Gigante!
Siamo tutti di fronte a tavola in una sala da pranzo deserta, quasi ammutoliti dalla stanchezza. Siamo gli ultimi a consumare la cena. In effetti siamo stati un po’ lenti, ma tre cordate da 2 persone, che si aspettano e si aiutano nei passaggi più difficili, non possono essere veloci. Se poi, al numero dei componenti della spedizione, aggiungiamo il carico di responsabilità del nostro capo gita, Carlo, istruttore e alpinista più esperto del gruppo, il tempo impiegato è presto spiegato.
Nell’ascesa al Dente del Gigante, ho usato tutto quello che, ad oggi, ho imparato frequentando la Motti, nei corsi di roccia, ghiaccio e alpinismo.
È stata una salita stupenda, nelle mitiche Placche Burgener ho dovuto dar fondo a tutte le risorse che avevo, per superare alcuni tratti davvero muscolari. Arrampicare a queste quote si fa sentire. Nonostante l’allenamento il respiro è a tratti affannoso. Nelle soste, nell’attesa di ricompattare il gruppo, prendo fiato.
Mentre salgo dietro Carlo, osservo e studio i suoi passi, il modo di integrare la via, complementarmente schiodata, fatta eccezione per le soste. In realtà in parete ci sono molteplici punti di sosta dai più antichi su chiodi, ai più artigianali sui fittoni della corda fissa, ai più moderni su spit. Si fa fatica a descriverne i tiri, è in molti casi è la fantasia del nostro capo cordata a deciderne la lunghezza.
L’esposizione, in molti tratti della cresta, è da capogiro. La giornata è stupenda, la cornice del massiccio del Bianco spettacolare. Mentre saliamo avvicinandosi alla gengiva, passiamo dalle prima luci dell’alba, alla luce accecante del giorno, in un tripudio di colori.
Mi sento bene, tranquillo, quasi più a mio agio attaccato come un geco sul freddo granito del Dente, che sullo sfasciume della cresta che porta all’ultimo nevaio, dove un cordone rosso segna l’attacco della via. Un piccolo movimento falso e una nefasta cascata di pietre di varie dimensioni piomberebbe addosso ai miei compagni di cordata. Dobbiamo testare ogni appiglio prima di affidarci ciecamente alla roccia.
Per fortuna tutto fila liscio. Dall’intaglio sotto la madonnina con tre aeree calate da 60 metri siamo alla base della parete e recuperato il materiale, abbandonato prima di salire, siamo pronti per l’ultima parte della discesa, forse la più noiosa.
Cerchiamo di indovinare la via per scendere, intravedendo qualche sparuto ometto (certo che segnare il sentiero non sarebbe male, ma capisco che per le guide alpine sarebbe un disastro!). Rimaniamo corti per evitare e intercettare le eventuali cadute di sassi dall’alto e con qualche passo di disarrampicata, improvvisato alla bell’e meglio, ci riportiamo alla sommità del canalino che termina con la crepaccia terminale. Dall’alto la sua bocca sembra bella spalancata e pronta ad inghiottirci.
Coraggio, dobbiamo pur scendere a valle! Girati nuovamente faccia a monte scendiamo il canale su una neve ormai acquosa, ma ancora portante. Il corso di ghiaccio e la gita al Pelvoux hanno dato i lori frutti e ormai la picca è un’estensione del braccio e affonda sicura nella neve.
Visto da vicino la terminale sembra meno spaventosa e il ponte di neve da attraversare ancora bello solido. Passato questo ultimo ostacolo, riprendiamo veloci la via del rifugio.
Il sole sta ormai tramontando, ripassiamo sotto l'Aiguille Marbré è finalmente apriamo il cancelletto che segna il confine con il mondo civile, la fine del sogno.
“Correre come scalare permette di guardare e di guardarsi, ascoltare e ascoltarsi. La percezione di sé stessi è il più semplice e devastante modo per sentirsi vivi, dannatamente protagonisti dei propri sogni, anche di quelli reputati inutili come sudare e fare fatica per non ottenere apparentemente nulla in cambio.
Ma è l’intensità delle nostre emozioni, l’entusiasmo del nostro viaggio di vita delle nostre scelte, quelle che fanno il nostro passaporto, che rappresentano la nostra non replicabile vita…
Alla parola correre vorrei che fossimo in grado di sostituire la parola “sognare”, combattere agire. È forse questo che abbiamo disimparato a fare. Non abbiamo sufficiente fame e ci viene sempre più difficile alzarci all’alba, affrontare le intemperie, accettare nuovi sacrifici, pagare il prezzo …e essere realmente liberi e protagonisti del nostro quotidiano.
Sta insomma a noi decidere se…scommettere finalmente su qualcuno dei nostri sogni che deve iniziare a muoversi perché possa un giorno anche correre…” (Correre o Morire – Jornet Kilian).
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