Foto 26° giro del lago del Moncenisio 2016
Video 26° Giro del lago del Moncenisio 2016
Classifica 26° Giro del lago del Moncenisio 2016
Sito Giro del lago del Moncenisio
Edizione 2015
dal racconto dell'OrcoMekkaniko
Piana del Moncenisio, 17/07/2016
Ovvero, “Comandi, Sergente!”
Un luogo bellissimo, una giornata bellissima - un teatro perfetto per l'annuale Tour du Lac - una gara che attendo sempre con trepidazione e che disputo con entusiasmo, clima e salute permettendo. Sarebbe tutto perfetto se quest'ultima non mi difettasse un poco: dopo una malaccorta discesa dall'erta del Monte Chaberton ho infatti iniziato a soffrire di una fastidiosa contrattura alla gamba sinistra, un dolore sordo che si diparte dal gluteo e termina al ginocchio. Ho stolidamente atteso che il tempo facesse il suo corso, ma continuo a zoppicare, sebbene lievemente. Evidentemente il tempo, almeno in quest'occasione ha deciso di non assecondarmi e di ricordarmi che di anni, e di chilometri, ne son già passati parecchi, per queste gambe.
Essendo geneticamente cocciuto per discendenza materna, oggi gareggerò lo stesso, ma lo farò senza concorrere, in quanto la mia unica risoluzione è di arrivare al traguardo, dovessi pur camminare per tutto il tragitto di 16 km.
Al mio arrivo, poco prima della gara, son già in parecchi ad essersi riuniti qui, al Plan de Fontanettes, ove scorgo molte facce conosciute: compagni di squadra, amici di altre società ed altri che ho già incontrato in altre gare.
Nei loro occhi scorgo la gioiosa aspettativa data da una giornata di uno splendore abbacinante, difficile da riscontrare in un punto di correnti d'alta quota e nubi in continua migrazione, che si fanno beffe delle frontiere così tristemente di recente ripristinate.
Un minuto di silenzio prima della partenza ci ricorda che il mondo non è tutto bello come qui: le vittime della recente strage di Nizza sono troppo recenti per esser state dimenticate dal quotidiano carosello mediatico e mentre in silenzio mi perdo in questo cielo così luminoso non posso far a meno di pensare che, al di là delle perdite umane, sia l'Umanità intera ad aver nuovamente subito una sconfitta.
Lo starter fa il suo lavoro e la corsa ha inizio, come tante altre, simili e non: dapprima tutti insieme in una massa compatta, poi via via tutti I partecipanti in un lungo serpentone variopinto in direzione di quella Francia cui, fosse pure solo per un minuto, ci siamo sentiti tanto vicini.
Sin a poco prima della partenza ho continuato ad ostentare serenità, abbracciando e salutando amici ed amiche, posando per le consuete foto per I posteri e scherzando su qualunque cosa me ne offrisse la possibilità...ma ora che sono in ballo, il piccolo tarlo che, da quando ho aperto gli occhi stamane, ha continuato a rodere, esce finalmente allo scoperto: la verità e che non lo so proprio se ce la farò ad arrivare a tagliarlo, quel traguardo che mi son appena lasciato alle spalle. Corro in mezzo agli altri, mi lascio trascinare dalla folla e dal suo entusiasmo, ma la coscia sinistra ha già cominciato a mettere in chiaro che c'è poco da scherzare. Cerco il mio passo abituale ma non riesco ad adattarmici, così procedo come uno Yo-Yo, cercando con lo sguardo qualche faccia conosciuta, come riferimento, mi dico: ma la verità è che non voglio stare solo a nessun costo.
Alla fine del primo chilometro ho già la gola secca: certo il sole a 2000 mt di quota, unito ad una brezza tonificante, spingono naturalmente all'arsura, ma quel che non voglio ammettere è che in realtà ho paura. Dissimulo alla bell'e meglio distribuendo pacche e sorrisi ai compagni di squadra che incontro man mano che procedo, ma non posso fare a meno, appena fermatomi a placare la sete ad un lavatoio di un'acqua che pare cristallo liquido, di sentirmi un ronzino zoppo all'abbeveratoio.
A costo di apparire invadente o stupido, una volta ripreso il passo, cerco di scambiare qualche battuta con chiunque incontri, conosciuto o meno, per cercare di ignorarla, questa paura strisciante, questa sensazione di inadeguatezza che mi divora internamente e mi fa sembrare questa meravigliosa valle che devo attraversare come uno sterminato deserto. Non posso far a meno di pensare, a tratti, che, nonostante lo splendore di questi declivi erbosi sormontati dalla millenaria maestà delle vette rocciose, neanche troppo tempo fa qui si combatteva e moriva in trincea ed ancora, non posso far a meno di desiderare con tutte le mie forze, che questa non diventi la mia personale Caporetto, tanto per restar in tema.
La svolta arriva al valico, tornando in ripida discesa in direzione del lago.
Già, il lago.
L'immensa diga al fondo della valle indica che questo specchio d'acqua è opera dell'Uomo, vero monumento alla volontà, all' ingegno, al duro lavoro, alle conquiste (nel bene e nel male) della nostra specie.
Ma... quella luce.
La nostra antica, generosa stella, che da millenni ci regala quotidianamente I suoi raggi, il suo calore, la sua vita, oggi ha deciso di donarci uno spettacolo che l'uomo può solo sognare, di sicuro non sperare di creare.
Come innumerevoli specchi che ad ogni istante si infrangessero in una caleidoscopica pirotecnia su quella superficie di cielo adagiato tra le vette, come se migliaia di uccelli dalle piume d'oro agitassero all'unisono le ali davanti ai nostri occhi.
Una sinfonia di luce.
In un'istante dimentico ogni mio timore e disagio fisico: è come se non ce l'avessi nemmeno più un corpo, di fronte a tanta incommensurabile bellezza.
In quel solo istante riesco a comprendere le parole di quel grande poeta che fu Giuseppe Ungaretti, scrivendo dinanzi ad una radiosa alba:
“M'illumino d'immenso”.
Per riportare una perifrasi più consona al linguaggio delle giovani generazioni:
è come scattarsi un selfie assieme a Dio.
Lo spettacolo mozzafiato mi restituisce un po' di energia e fiducia, tanto che, costeggiando le rive punteggiate da una galassia di fiori colorati, mi metto a scherzare con alcuni ragazzi e ragazze di altre squadre: non ci conosciamo, ma ci accomuna la fatica che stiamo affrontando e ci addolcisce l'animo il meraviglioso panorama che ci sovrasta e ci avvolge come aura rivitalizzante.
Il dolore, mai sopito, solo accantonato, torna a trovarmi come un piazzista invadente nel momento in cui termina il tratto asfaltato del percorso e si inizia a ballare, tra buche, pietrisco, rive scoscese e curve polverose. Mi costringe a concentrarmi sul tracciato e sulla mia scarsa stabilità, a dimenticare in fretta le bellezze del luogo, a sentire ogni strattone con fitte che si avventano come vespe rabbiose lungo I gangli spinali: a tratti procedo al passo e nei punti più scoscesi I muscoli offesi mi danno la sensazione che il femore si sganci e riagganci, qual emulo parodistico e rugginoso di
Jeeg Robot. Nonostante tutto, la gamba regge e lo fa anche il paragone, dato che forse questo è il momento giusto per appurare se dopotutto, in fondo non sia anch'io, nel mio piccolo, un “cuor d'acciaio”, seppur magari un po' sbullonato.
Arrivo in un punto dove la riva è ripida e scoscesa e ripenso che qui, tanti anni fa, in occasione della mia prima gara in questo luogo, un giovane carabiniere di stanza nei punti caldi del Medio Oriente, allora qui in licenza per la nascita del suo primo figlio, mi afferrò al volo e mi evitò una rovinosa e dolorosa caduta, mentre procedevo ancora con passo incauto ed inesperto su terreno a me poco affine. Come ogni volta che passo di qui, invio col pensiero a lui e alla sua discendenza un caldo augurio di lunga vita: da quella volta ho smesso di raccontare barzellette sui carabinieri, ma non posso far a meno di pensare con amarezza che se mi vedesse ora arrancare come sto facendo, forse si chiederebbe se sia valsa la pena compiere quel gesto generoso.
Giunto al ristoro, a metà percorso, scorgo l'arrivo dall'altra parte del lago, che ora sembra un'oceano e mi fa pensare di esser un po' troppo a corto di caravelle per potermici avventurare: il calore del sole, il terreno sempre più accidentato, la fatica accumulata e I costanti dolori mi stanno rapidamente demoralizzando ed è con passo sempre più incerto e strascicato che riprendo a correre, senza neanche più il conforto dell'altrui compagnia, in quanto I concorrenti sono oramai troppo distanti tra loro, o comunque troppo concentrati sulla gara.
Mi accorgo di star dando sempre più ascolto alla mia così detta parte razionale, mentre medito di continuare a passo di marcia sino al traguardo, quando comincio a sentire quella voce.
All'inizio solo un lontano brusio, pressochè impercettibile, nascosto nel ritmico ansito degli altri concorrenti o nel fruscio del vento sugli steli dell'erba dei prati, poi sempre più insistente e intelleggibile.
Una voce che, a quanto pare, si rivolge a me.
Ma accanto a me, nessuno parla.
Non si può certo definire ispirazione divina lungo la via di Damasco, a giudicare dal fraseggio.
Il tono, imperioso, autoritario e sprezzante, il lessico infarcito di oscenità appartengono senza molti dubbi ad un sergente istruttore di un Centro Addestramento Reclute.
Il terribile Sergente Hartman, dal film “Full Metal Jacket”, il sardonico Sergente Apone dal film “Aliens”, oppure l'inflessibile Foley da “Ufficiale e gentiluomo, o il truce Zim da “Starship troopers”, il granitico Gunny dall'omonimo titolo (interpretato da un Clint Eastwood in forma smagliante) o forse, più semplicemente, il grezzo e ignorante Sergenten, dalle vignette delle Sturmtrupen, nate dal mai abbastanza celebrato genio del compianto Bonvi - tanto per rendere l'idea a chi, come me, è nato nel secolo scorso...
Forse il sole a picco e la stanchezza stanno avendo la meglio sul mio cervello, oppure il mio lato da camicia nera, quello che ho sempre deciso di seppellire in profondità dentro di me, sta cercando di riaffiorare, approfittando dell'abbassarsi delle difese dell'io cosciente: sta di fatto che quella voce continua ad urlare improperi al mio indirizzo, per far sì che la mia corsa non abbia termine qui, dove tanta fatica non sarebbe servita a nulla. Disposto a tutto pur di non concentrarmi sulla gamba che chiede sempre più a gran voce la meritata requie, decido di iniziare un teatrino di botta e risposta mentali con quell'intruso che sembra aver molto più fiato di quanto ne rimanga a me:
-”Fa male, sergente!”
-”Sei ancora lì, recluta?!”
- “Non ce la faccio, sergente!”
-”E ti consideri un uomo??!”
-”Ora getto la spugna, sergente!”
-”Muovi le chiappe, miserabile checca!”
E così via, concentrandomi su tale grottesco dialogo, riesco ad arrivare sino in cima alla rampa che conduce allo sbarramento artificiale del lago: una strada (si fa per dire) che scende ripida e scoscesa, dilavata dalle aspre intemperie che si abbattono spesso su questi luoghi, punteggiata da instabili rocce affioranti e da infido pietrisco: una manna per le già provate gambe dei concorrenti, sani o acciaccati che siano.
Dato che sino ad ora da un po' di minuti sto giocando al soldatino obbediente, tanto vale che vada fino in fondo: all'urlo mentale di “CARICA!”, il sergente mi spinge a gettarmi a scapicollo, ignorando tutti gli allarmi che il mio istinto di conservazione ridotto al lumicino riesce ancora timidamente ad inviarmi. Per entrar meglio nella parte cerco di immaginare che le pericolose asperità sian mine e trappole esplosive, I concorrenti da superare sian avversari che mi si avventan alla baionetta (non cerco di ucciderli: in ogni caso non ne avrei la forza...), la diga là sotto sia la terra di nessuno da superare, sotto le sventagliate di mitragliatrice e la strada che si inerpica al di là di essa sia la collina da conquistare, costi quel che costi. La rovina del vecchio, massiccio forte del Varisello che ci sovrasta non fa che aumentare il realismo dell'illusione, in un'allegorica imitazione delle manovre che, tanto tempo fa, qui si dovevan tenere per davvero ed è così, con l'aiuto di un'illusione, per quanto sgradevole, che arrivo a metà dell'immensa diga, accorgendomene solo quando il mio corpo mi riporta bruscamente alla realtà.
La gamba destra, sinora sempre robusta ed efficiente, dopo tanti kilometri di sforzi, comincia ad esser stufa di compensare le evidenti inefficienze della gemella e mi invia sferzate di dolore sopra al ginocchio, che hanno il sentore di comunicati di una RSU, annunciante agitazione del personale ad un manager arpagone che finora ha dilapidato in giochetti finanziari le risorse di un'azienda sana.
Ci mancava solo più il senso di colpa, alla collezione di avversità che sto incontrando...
Perdo terreno e slancio, su quell'eternità di sterrato ch'è la diga, in mezzo alla polvere e a turisti che passeggiano e ci squadrano con un misto di divertimento e compassione: ma lassù qualcuno si è ricordato di me e tra questi ultimi scorgo una carissima amica che si sta godendo il panorama da quassù e riconoscendomi, mi invia un grido di incoraggiamento che aggiunge cavalli freschi al mio traino, rivitalizzandomi all'istante. La voce del sergente, sinora mai sopita, ma sempre caustica, qui si fa complice e mi apostrofa sorniona :“Con un pubblico così, non ti conviene proprio fare schifo...”. Spingo il passo con rinnovata forza, mandando un abbraccio pieno di calore alla mia inconsapevole salvatrice, ricordandomi, non senza ironia, di quanta energia sia capace di infondere il gentil sesso, anche nell'uomo più esausto... almeno la forza del proverbiale carro di buoi...
La diga e il suo monotono incedere, così com'erano iniziati, giungono al termine, lasciandomi di nuovo solo dinanzi alla parte più difficile della gara: una riva erta e dirupata, buona solo per il passo delle capre, che conduce alla statale asfaltata, parecchi metri più in su e che a sua volta continua a salire in direzione del tanto agognato traguardo. Qui, a prescindere dalle condizioni del corpo, qualcosa nello spirito si spezza e mi ritrovo ad annaspare senza nemmeno più l'aiuto del sergente, la cui voce si è fatta più fievole alla prospettiva di una fatica che mi pare tanto insormontabile.
Dovrei esser distrutto e nel panico, se mi fosse rimasto ancora un briciolo di raziocinio. Fortunatamete, arrivato sin qui, il mio io cosciente ha deciso di arrendersi e lasciar il posto al primate pre-sapiens. Per la prima volta da tempo immemorabile qualcosa in profondità dentro di me si inferocisce, mostrando le zanne a tutte le paure, I sensi di inadeguatezza e le sconfitte che negli anni mi si sono opposte. Con un ringhio mi gioco tutto quel che mi resta: aggredisco la salita col mio passo da montagna, abbassando il baricentro in avanti, artigliandomi le ginocchia con le mani e spingendo con le braccia sugli arti inferiori, ad imitazione biologica della meccanica ottocentesca delle bielle e stantuffi delle prime locomotive. Digrignando I denti aumento la velocità: le giunture stridono, protestando per l'improvviso cambio di ritmo, ma sento che funziona e mi concedo un ghigno di soddisfazione, mentre riesco a superare un altro paio di concorrenti e per la prima volta dalla partenza provo l'ebbrezza di aver il controllo della situazione.
Per distogliere dalla fatica quel briciolo di raziocinio che mi rimane, sebbene non sia una posizione agevole, alzo lo sguardo a fissarsi sul cielo limpido, lasciando correre il pensiero a quell'eroe dei fumetti di quando ero ragazzo: un grande e potente re guerriero la cui più grande ambizione era stringere nel suo possente pugno il cielo e che, nell'istante del trapasso, dopo epica battaglia, con le sue ultime forze si alza in piedi in tutta la sua considerevole statura e solleva il pugno a quel cielo, quell'azzurro luminoso, che a pensarci bene è stata, è e sarà l'unica costante che da sempre accomuna tutti gli esseri che abitano questo pianeta, in ogni tempo e luogo. Chiudo gli occhi e per un istante mi ci lascio trascinare, in quell'azzurro abbagliante e privo di nubi e, come se avessi spiccato un'improbabile, unico grande balzo, mi ritrovo alla fine della rampa sterrata, al confine del supplizio di asfalto che ancora mi attende. Se questo fosse un film di Hollywood, procederei ormai con passo inarrestabile verso il traguardo, accompagnato dalla trionfale colonna sonora di qualche compositore famoso, ma sono nella dura realtà e posando lo sguardo su quel che ancora mi aspetta, mi rendo conto di aver consumato quel che ancora mi restava di forze nella salita che mi son lasciato alle spalle: fisso come in un incubo la striscia di asfalto rovente che mi aspetta e rallentando al passo mi lascio sfuggire un gemito da animale ferito. Qualcuno deve avermi sentito ed avuto pietà, perchè mi sento afferrare con calore ad una spalla: un concorrente che non conosco, più alto e robusto, nonostante la faccia provata dalla fatica, mi sorride e mi regala parole di incoraggiamento. Un istante da fissare nel tempo, da tramandare a tutti quelli che credono nel detto
“Mors tua, vita mea”: l'incarnazione del vero sportivo. Oppure siamo veramente saliti di quota, se arriviamo ad incontrare persino gli angeli... Vorrei poter dire che da quel momento mi sian tornate le forze, ma mi ritrovo ad arrancare sull'interminabile salita, senza mai perdere d'occhio il mio benefattore, a volte superandolo, a volte lasciandomi oltrepassare a mia volta, cercando di sorridere per quanto mi è possibile alle famiglie di turisti che ci acclamano e incoraggiano lungo la strada. Le giunture stremate urlano di dolore e per il surriscaldamento, il poco di mente vigile che ancora possiedo, in mancanza dell'energica voce del mio personale sergente, recita continuamente, quale salvifico mantra la parole di Rocky Balboa, allora doppiato dalla calda voce del grande Ferruccio Amendola:
Non fa male Non fa male Non fa male Non fa male...
Arrivo così al traguardo: senza clamore e sotto anestesia da endorfine, accorgendomi all'ultimo minuto di stare per superare il mio salvatore di poco fa e raccogliendo il pochissimo spirito che mi rimane per rallentare impercettibilmente e farmi superare: ne ha tutto il sacrosanto diritto... al mio orgoglio racconterò che il dolore alla gamba si era fatto insopportabile...
Passo al traguardo senza clamore: del tempo che ho impiegato mi importa meno di zero, perchè ho compiuto ciò che mi ero prefissato.
Mi fermo, alla fine, godendomi da qui lo splendido panorama che nel frattempo non è cambiato, seguendo con lo sguardo il percorso e rendendomi conto di non aver compiuto nulla di così speciale: I miei compagni di squadra e molti altri partecipanti hanno sicuramente affrontato imprese molto più ardue e in condizioni di clima e fisico ben peggiori. La mia gara, oggi non era con loro, ma con un solo uomo. Quell'individuo, troppo spesso ignavo e rinunciatario, che mio malgrado son costretto a vedere ogni mattina allo specchio.
Ciononostante continuo a sentirmi come un astronauta che ha dovuto affrontare un brusco rientro dall'orbita, magari sotto una pioggia di meteoriti, a bordo di uno shuttle scassato e con condizioni atmosferiche proibitive: la Terra non è mai stata così bella, ora che vi ho rimesso piede.
Ho persino timore ad abbassare lo sguardo sui miei ormai ululanti arti inferiori: non mi sosprenderei troppo a vederne scaturire dalle giunture un sottile filo di fumo...
Se il mio cervello fosse il cruscotto di un'auto, ora sarebbe illuminato come un'albero di Natale, dal lampeggiare di tutte le spie di malfunzionamento e carenza di sostanze varie: se non altro son riuscito ad appurare che, sebbene sospensioni e differenziale siano a pezzi, il motore è ancora in buono stato, ed è tutto quello che volevo sapere.
Corro (si fa per dire) a ringraziare con calorosa e doverosa stretta di mano il mio benefattore di poco fa, pensando, mentre sorseggio dei rivitalizzanti sali, che, mentre io correvo per me stesso, gli altri concorrenti, conosciuti e non, mi passavano più o meno consapevolmete un po' della loro energia per continuare la mia gara: un'energia che si trasmetteva con la voce, una battuta, un sorriso, un saluto o talvolta la semplice presenza. Ognuno di loro, senza saperlo, mi ha dato una spinta, a volte anche solo di pochi centimetri, ma alla fine sufficiente ad arrivare a compiere tutti I 16 kilometri del tragitto.
Con questo in mente decido che, sebbene la voglia di gettarsi sulla soffice erba di questi prati invitanti sia pressante, mi resta ancora una cosa da fare, un ultimo compito da svolgere, prima del meritato riposo.
Mi avvio claudicando ormai vistosamente, emulo contemporaneo, appena un po' più basso e punk, di Long John Silver, alla volta dell'arrivo che ho superato poco fa, per utilizzare come si deve le mie ultime forze ad incitare quelli che ancora stanno arrivando, perchè oggi ho imparato da tante brave persone, che non possiamo mai sapere chi e in che modo ci aiuterà ad arrivare, a quel maledetto traguardo.
Quando alzo lo sguardo alla volta dell'arrivo, vedo qualcuno che non dovrebbe esserci e che, lo so, sta aspettando me. Non già la Nera Signora della canzone “Samarcanda” (doverosi scongiuri), ma la massiccia figura appoggiata al vistoso arco gonfiabile del traguardo, per un istante appena percettibile come in una foto sfocata , sono sicuro che sia il mio Sergente, con tanto di uniforme e con quella che distinguo nettamente come una strana smorfia obliqua stampata sul suo faccione mascelluto.
Quello che interpreto come il miglior tentativo di sorriso affettuoso che I suoi lineamenti da duro inveterato sian riusciti a produrre.
Se a suo tempo non fossi stato riformato dal servizio di leva militare e quindi qualcono mi avesse insegnato a farlo, forse ora gli farei il saluto, ma vorrei peraltro evitare di passar per matto più di quanto non sembri (o sia) già, per cui mi accontento di restituirgli un sorriso tirato dalla stanchezza e a mormorare al suo indirizzo “Grazie, sergente...”
Quando passo lì davanti, lui è già scomparso, forse solo frutto del troppo sole o della fatica, ma, come a riservarsi il diritto dell'ultima parola o a voler dar un taglio a quelle inutili smancerie, lo sento un'ultima volta, in tono beffardo:
“Era ora, mezza sega.”
Dal racconto dell'OrcoDaniela
La sveglia ha suonato presto, io e l'OrcoMilena vogliamo evitare il traffico e fare tutto con calma.
Arrivate su andiamo a ritirare i nostri pettorali, tutto è ben organizzato e veloce.
Facciamo una buona colazione ed andiamo a cercare i compagni di squadra,una volta trovati passiamo alle foto di rito. Il tempo è passato velocemente: è già ora di andare a posizionarsi alla partenza. Prima dello sparo d'inizio gara,rispettiamo tutti un minuto di silenzio per le vittime dell'attentato di Nizza,sessanta secondi molto toccanti.
Si parte!
Il primo tratto è asfaltato ed in discesa, il paesaggio è bellissimo, l'unico aspetto negativo sono gli automobilisti impazienti che non lasciano passare i runners.
Ecco la salita, su sterrato, Luglio si fa sentire: la pelle inizia a bruciare.
Vedo il ristoro, penso
“bene sono già al decimo chilometro,solo più sei ed è fatta”, ci sono noccioline, uvetta, zollette di zucchero ed ovviamente acqua, bevo e mi guardo intorno, sull'altra sponda del lago mi attente l'arrivo.
Passo sulla diga (che mi sembra infinita) alla fine della quale mi attende una ripida, ma per fortuna, breve salita per arrivare poi sulla strada. Sono gli ultimi tre chilometri,ma sembrano molti di più!
Arrivo al traguardo: è finita sono soddisfatta anche questa volta ce l'ho fatta!
Uso le ultime forze per dirigermi al ristoro finale,molto ricco anche questo, bevo e cerco subito gli Orchi.
Il premio : la compagnia della squadra e un buon panino salame e toma!!!