Foto Cascatismo goulotte Grassi-Tessera
Dal racconto dell’OgreDoctor
Nell’alpinismo la goulotte è una
formazione nevosa o di ghiaccio troppo dritta e ripida per essere sciata,
distinguendosi così dal couloir e per la cui salita è necessaria la tecnica
dell’arrampicata su ghiaccio.
Solo a vederla incute terrore e
un sacro rispetto, sapere poi, che fu Giancarlo Grassi a percorrerla per la
prima volta, ne aumenta il fascino.
Non avrei mai pensato di
affrontare una salita valutata TD, ovvero “molto difficile”; fino a questo
momento il massimo grado di difficolta era stato un AD “abbastanza difficile”,
salendo il Dente del Gigante.
Ma nella vita c’è sempre una
prima volta e la squadra è quella giusta, affiatata e collaudata.
La sveglia è di quelle che fanno
male: 3.30 del mattino. Ritrovo a Carmagnola alle 4.30 e partenza per Celle di
Bellino, un vallone laterale della Valle Varaita, che dopo la terza uscita, nel
giro di due settimane, dovrebbe darci la cittadinanza onoraria.
Alla luce delle frontali saliamo
il sentiero u23, che conduce al colle Bondormir (2757 m). Dal colle con un
traverso a sx ci si sposta verso la goulotte che risulta evidentissima sotto la
muraglia centrale del Monte Ferra (3094 m).
Il manto nevoso è duro, lavorato
dal vento. I ramponi incidono la neve e percorrendo l’esile traccia, lasciata
da chi ci ha preceduto, arriviamo al conoide di deiezione, un canale di 50°,
per fortuna su neve portante. Ci vorranno 1200 metri di dislivello e circa 3 ore
di cammino per arrivare ad indossare l’imbrago e legarci per iniziare la
scalata.
La base della goulotte è situata
a quota 2800 metri e ha uno sviluppo di circa 200 metri, articolato in quattro
tiri, tutt’altro che semplici, 70, 80 gradi con alcuni tratti a 90°. Il
ghiaccio è lavorato dalle cordate che ci hanno preceduto, nota positiva, in
quanto riduce lo sforzo degli arti superiori per piantare le picche, andando,
dove si può e si riesce, in aggancio.
La temperatura si mantiene per
tutta la giornata al di sotto dello zero, il che è un bene, considerando quello
che si sta facendo e la poco rassicurante cornice che si staglia sulla cima
della montagna, al di sopra delle nostre teste.
Ma al di là di qualche
inevitabile pezzo di ghiaccio misto a roccia che, accompagnano costantemente
questo tipo di ascensioni, la nostra progressione procede senza intoppi.
L’ultimo tiro lo percorriamo su
un ghiaccio spaccoso e duro come la pietra, ma alla fine arriviamo in cima,
pronti per buttare giù le corde per le quattro doppie.
Ripercorriamo il conoide di
deiezione che faccia a valle è ancora più impressionante; guai a scivolare. La
neve dura e i ramponi fanno il loro lavoro egregiamente e, in men che non di
dica, siamo di nuovo al colle Bondormin, che a differenza del versante teatro
della nostra scalata, esposto a Nord-Est, in ombra per tutta la giornata, è
scaldato da uno splendido sole.
Arrivati ad una piccola baita
diroccata, svestiamo i panni umidi e mangiamo qualche tarallo misto a scaglie
di parmigiano, ormai un “must”, durante le nostre scalate. Riposto il materiale
e tolti i ramponi ci apprestiamo a percorre gli ultimi metri di dislivello,
fortunatamente in discesa.
Alla macchina spengo il gps e do
una rapida occhiata ai dati: 10 ore e mezza di gita, per un dislivello totale
in salita di 1400 metri e uno spostamento di circa 16 km. Niente di speciale,
se guardo i dati con la mente di un trailer, abituato a percorre dislivelli e
chilometraggi decisamente superiori, ma ci sono i 10 e più chili sulle spalle
di materiale che fanno un enorme differenza.
Pregustiamo già la consueta birra
accompagnata da cibarie deliziose al Risto-Bar la Spada Reale a
Frassino. La
proprietaria ormai entrando ci riconosce, tante sono le volte che dopo aver
salito una cascata passiamo a rifocillarci nel suo locale. Questa volta ci va
male, troviamo le imposte chiuse e ci accontentiamo di un bar qualsiasi.
Arrivato a casa ho difficoltà a
prendere sonno, nonostante la fatica. Negli occhi semi chiusi passano le
istantanee della giornata appena trascorsa: i colori dell’alba, il bagliore
accecante della neve, il freddo che ti entra nelle ossa quando sei in sosta,
l’adrenalina che ti incendia la mente quando sali, i cristalli di ghiaccio e le
scaglie di pietre che ti martellano incessantemente il casco, il sorriso dei
compagni di cordata e l’abbraccio fraterno quando tutto è finito e giunti alle
macchine ci salutiamo con lo sguardo di chi sta pensando: a quando la prossima!
Sono consapevole di aver portato
a termine una salita al di là della mia immaginazione e di quelle che pensavo
essere le mie capacità e che oltre questo limite sarà impossibile andare,
l’asticella è salita ben in alto, questa volta. Al di sopra del TD nella scala
delle difficoltà alpinistiche francese esiste solo ED (estremamente difficile)
e qualche salita denominata ABO (abominevole).
Molti si domanderanno che senso
abbiano certe imprese, dove si sfida il limite e conseguentemente la sorte.
Non ho una risposta. Terray
Lionel definì nel suo celebre libro, gli alpinisti con il termine
“conquistatori dell’inutile” che sintetizza perfettamente quello che significa
scalare le montagne: uno sforzo senza scopo per raggiungere un orizzonte che si
allontana con lo stesso passo con cui si cerca di raggiungerlo.
Ma fatte le dovute proporzioni,
per il tipo di rischio a cui si sceglie consapevolmente di sottostare
praticando l’alpinismo a certi livelli, non vi trovo alcuna differenza rispetto
a correre una 100 miglia, che sia in montagna o su strada, un Tor de Geants o
una duecento chilometri in bicicletta.
Sono tutte imprese che guardate
dall’esterno, da chi non le fa, vanno al di là delle logiche quotidiane. Che
senso ha sopportare fatiche immani, arrivare al limite per il solo gusto di
toccare una cima, tagliare un traguardo?
Forse, nessuno.
Ma questa sera mi addormento,
sfatto, consapevolmente felice di aver realizzato un’impresa priva di senso
logico e attendo, nella mia stupidità, impaziente, di programmare la prossima.
W Gli orchi, W la montagna
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