Dal racconto dell'OgreDoctor
Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse
Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte,
scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei
mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano,
dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in
vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta…eravamo
felici.
Con
questo incipit tratto da Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni, iniziamo
il racconto della nostra breve, ma intensa esperienza in terra sarda.
Che
cos’è il Selvaggio Blu?
È un
itinerario unico nel suo genere, che si snoda fra il Supramonte di Baunei, un
piccolo paese del nuorese e il mare, ideato dagli alpinisti Verin e Cicalò negli anni
’80.
Nella sua formula originale durava 4 giorni e prevedeva, come ci ha raccontato Antonio Cabras, della Cooperativa Goloritzè, una vita ancora più spartana. Ora viene proposto in due versioni che seguono il percorso originale, ma che durano 5 o 6 giorni. Possiamo garantirvi, che anche nella forma più addomesticata, questo trekking, risulta assai faticoso e mette a dura prova la resistenza fisica e psichica dei partecipanti.
Per far il nostro giro ci siamo affidati alla Cooperativa Goloritzè, una delle due associazioni locali rimaste operative, che accompagnano gli escursionisti lungo il percorso e che gestiscono la logistica. Percorrere il tracciato in autonomia è, sì fattibile, ma diventa proibitivo, sia per la quantità di materiale da portarsi sulla groppa (tenda, sacco a pelo, materassino, materiale alpinistico, viveri), sia per la quasi totale mancanza di acqua lungo il percorso.Siamo
stati condotti lungo i sentieri invisibili dei pastori, le scale di tronchi di
ginepro a strapiombo sul mare, falesie, rocce
spettacolari, antichi ovili, boschi di lecci secolari,
macchia mediterranea, spiagge bianche e cale
incontaminate, da Marco, la nostra guida
escursionistica, molto preparato sulla storia della sua, della mia terra e
sulle tradizioni che in parte ci accomunano. La Sardegna è un’unica isola, al
cui interno però le differenze nel dialetto, nelle usanze e anche nel cibo sono,
a volte, molto marcate.
Il
tempo alla partenza è soleggiato e ci concediamo una breve sosta in una caletta
per un tuffo in un’acqua cristallina.
Riguadagnato il dislivello perso per arrivare al mare, si sale fino alla Cengia Giradili, da dove lo sguardo spazia lungo tutta la costa e dalla parte opposta, all’interno, verso le montagne del Gennargentu. Il tempo cambia. Siamo nel regno del vento e le nuvole corrono veloci, ambasciatrici della pioggia che non tarda ad arrivare. Dopo il 4 leccio secolare, (sistema cartografico sardo!) si arriva al primo campo, sito presso l’ovile di Gennirco. E sì le indicazioni sono rami di ginepro sapientemente disposti a terra, pietre messe sugli alberi, lecci secolari, perché di segni sul sentiero, fatta eccezione per gli originali segni blu, rimarcati, di recente, da una guida tedesca, che i locali sembra aspettino che si sbiadiscano e scompaiono, nemmeno l’ombra.
Montato
il campo, svestiti i panni sudati e umidi, abbiamo subito un assaggio di quelle
che saranno le nostre cene. Per la prima sera abbiamo i cululzones (ravioli di magro) con un ragù di capra e pecora
arrostita, il tutto accompagnato dalla onnipresente carta da musica, il pane
dei pastori, il carasau, anche nella
sua versione guttiau (gocciolato) e
dal vino Cannonau, di colore rosso
rubino, inebriante, normalmente invecchiato da due a sei anni e con una
gradazione alcolica mai inferiore a 12,5 per cento. Un vino morbido e robusto,
che si accosta perfettamente ai sapori forti della cucina isolana, alla
cacciagione, agli arrosti di carne, ai formaggi come il pecorino e il caprino. Si
dice che il cannonau, sia un vero e proprio elisir di lunga vita, che contiene il
triplo di anti-ossidanti di altri vini rossi e garantisce benefici al sistema
cardiovascolare quasi dieci volte superiori rispetto alle altre varietà di vino
presenti nel mercato e contribuisca alla famosa longevità degli isolani. A
pasto ultimato manco a dirlo, mirto, artigianale, come se piovesse.
Notte parzialmente insonne, la prima; forse la colonna vertebrale diversamente giovane deve abituarsi al terreno duro, anche se parzialmente mitigato dal materassino. Ci faremo l’abitudine e alla fine dopo cinque notti all’addiaccio, il letto del Rifugio del Golgo ci è sembrato persino troppo morbido e troppo comodo.
Alle 7.00 del mattino, si smonta il campo e alle 8.00 puntuali come un orologio svizzero arriva la Land Rover Defender con le colazioni.
Colazione a base di marmellata d’arancio, ricotta di capra, miele, torta fatta in casa, latte, the e caffe, per prepararsi alla giornata di cammino che ci aspetta.
In
tutta la settimana cibi confezionati sono rappresentati da una mozzarella e una
scatoletta di tonno; tutto il resto cibo fresco a chilometro zero.
Ritirato
il pranzo al sacco (pane, formaggio, salsiccia, pomodoro, cetriolo e frutta di
stagione), carichiamo i bagagli pesanti sul fuoristrada e siamo pronti per la
tappa successiva.
Supramonte
e dintorni risuonano del nostro mantra: “Battu
u belin in sci scheggi”, che tradotto dal genovese significa “non potrebbe
fregarmene di meno”. A proposito di genovesi, ma Roberto e Mauro, saranno
davvero fratelli?!
Giorno
dopo giorno la nostra avventura impegnativa procede lungo un’affascinante percorso di 36 chilometri fatto
di sentieri impervi dal fondo sconnesso, traversi su roccia, arrampicate e calate in corda,
immersi nei colori di una natura mozzafiato, il grigio del calcare, il verde
della macchia mediterranea, il profondo blu del mare, il bianco delle spiagge.
È stato un viaggio emozionante e faticoso, di cui ognuno di noi serberà un ricordo indelebile.
Il
gruppo residuo di 8 persone, dalle originarie 14, falciato dal Covid-19, si è
progressivamente amalgamato; la settimana è trascorsa senza screzi, senza
diverbi, senza incidenti. Le tanto temute manovre di corda e arrampicate, nei
tratti alpinisticamente più impegnativi, sotto l’occhio attento di Carlo, sono
passate senza problemi e anche i meno esperti, si sono diverti nel scendere,
forse in maniera non proprio ortodossa, ma alla fine consapevoli di non
rischiare nulla.
Con il senno di poi, credo che un gruppo di 14 elementi sarebbe stato difficile da gestire, soprattutto per le calate in corda doppia, che avrebbero richiesto parecchio tempo, facendoci arrivare alla fine delle tappe sempre un po’ in affanno. Capendo meglio cosa significa “Selvaggio blu”, qualche uscita in più su terreno scosceso e esposto, dove è necessaria concentrazione e piede fermo, non sarebbe stata una scelta sbagliata.
Avevamo pianificato questo viaggio prima del mio incidente, sospeso e poi ancora rimandato per l’emergenza Covid-19. Siamo partiti con tanti dubbi, con un tampone molecolare per fugare ogni remora, lasciando a casa, purtroppo, tanti di noi.
Alla
fine abbiamo fatto bene a partire, io ad insistere perché si partisse.
Sono felice
di essere riuscito ad arrivare in fondo e fare il bagno a Cala di Sisine, anche
se ho dovuto rinunciare ad una mezza tappa, per un fortissimo mal di stomaco
durante la seconda notte in tenda. Non era scontato. Camminare su questo terreno
è stata una sofferenza continua, arrivare a sera, togliere il tutore, guardare la
caviglia tumefatta, senza sapere se il giorno dopo sarei riuscito a camminare,
anche.
La
bellezza del luogo, la semplicità della gente, la loro ospitalità, la durezza
della vita dei pastori e dei carbonai che da questi luoghi hanno saputo trarre
il massimo possibile, gli animali allo stato brado, liberi di andare e venire
nel loro habitat naturale, il comunismo ante litteram che da sempre appartiene
a questa gente, sono alcune delle emozioni forti che mi porto a casa.
Chiudo
con l’ultima immagine di noi 8, sotto un immenso campo stellato, con la via
lattea disegnata sulla volta celeste e Marco, la nostra guida, che disegna con
un fascio di luce le costellazioni.
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