Dal racconto dell'OrcoBee
Da tempo sognavo di andare a perlustrare con un po’ di calma qualche angolo di dolomiti. Sono un collezionista ossessivo-compulsivo di pubblicazioni su gite e itinerari di ogni genere e non mi mancavano certo gli spunti. Rispolvero un po’ di numeri di “Meridiani Montagne” sui vari gruppi dolomitici e mi soffermo sulla monografia dedicata al Civetta e zone limitrofe. Siamo tra la val di Zoldo e l’Agordino, in provincia di Belluno.La rivista rileva il fatto che si tratta di una zona un po’ più appartata rispetto alle valli più famose. Si parla di valloni e sentieri in cui anche in piena estate è difficile trovare la ressa. Poi, come al solito molto lo fanno le immagini...foto incredibili del Civetta, del dirimpettaio Pelmo e delle centinaia di torri di calcare che li contornano.
Ne parlo con l’OrcoCamola che quando sente di roccia e montagna difficilmente rimane indifferente, coinvolgiamo poi anche l’amico Germano, un altro che non si fa pregare più di tanto. Riusciamo miracolosamente a ritagliare 4 giorni di ferie alla fine di luglio e si va.
L’idea è di raggiungere come prima tappa il rifugio Coldai, poco più di un ora e mezza dopo aver raggiunto la localita Palafavera, sopra Val di Zoldo, ...a seicento km da casa.
Partiamo domenica 21 luglio, presto, molto presto da Rivoli e ci ritroviamo abbastanza in fretta a Longarone, imbocco della valle che dobbiamo risalire. Ma questo nome rievoca nella mente di tutti gli italiani una delle più grandi tragedie civili ed ambientali della nostra storia, il disastro del Vajont. Decidiamo quindi di fare una deviazione e risalire il vallone per andare verso Erto, dove sorgeva il bacino artificiale e la relativa diga che erano stati creati per la produzione di energia elettrica. Ma la sera del 9 ottobre 1963 una frana del soprastante Monte Toc (che in dialetto friuliano significa marcio) sprofonda nel bacino, riversando verso valle 25 milioni di metri cubi d’acqua e lasciando una scia di distruzione e morte.
Longarone è la più colpita, praticamente rasa al suolo la parte bassa del paese, si contano quasi 2000 vittime. Ci sono vittime e danni anche nei paesi di Erto e Casso
La visione dello scenario della tragedia è ancora sconvolgente a più di 50 anni di distanza. La zona da cui si è staccata la frana si presenta ora come una placconata di roccia liscia e lucente. L’unico punto roccioso di una versante boschivo verdeggiante. Ma la cosa che sconvolge più di tutte è che la tragedia era ampiamente annunciata. I segnali di allarme c’erano stati, le vittime e la distruzione si potevano evitare, l’arroganza e la cupidigia di chi aveva evidenti interessi economici ebbe però la meglio.
Dopo un boccone nella vineria Corona di Erto (omonima dello scrittore-alpinista- Mauro Corona, originario ed abitante qui) ,riprendiamo il viaggio e ci dirigiamo verso il nostro punto di partenza della spedizione dolomitica.
Cominciamo a camminare verso le 16.30, ci troviamo a circa 1500 m. ma il sole è ancora caldo sulle nostre teste.
Il rifugio Coldai si raggiunge abbastanza agevolmente per comoda carrrareccia prima e sentiero poi.La mole del gruppo del Civetta e dei suoi satelliti incombe da subito. Comincio a chiedermi se esiste veramente un passaggio per arrivare in cima a quel blocco immenso di roccia.
Da queste parti si mangia presto. Arriviamo al rifugio alle 18.15 e ci avvertono che la cena è alle 18.30… una lavata e siamo a tavola, poi con la luce più tenue della sera ci scateniamo con foto del Civetta e del dirimpettaio Pelmo. Siamo a quasi 2200 m. sono le 21 di sera ma basta una felpa per non patire il freddo…
Già così saranno 10 ore di traversata, ci avverte.
Va bene, un passo alla volta, partiamo alle 6.45 dal rifugio (tanto per cambiare, non fa freddo) e ci dirigiamo verso la famosa ferrata degli Alleghesi. Lo scenario, man mano che ci portiamo sotto l’anfiteatro roccioso del versante sud-ovest del Civetta si fa sempre più maestoso e severo.
Senza farci mancare un minimo di “ravanage” giungiamo all’attacco della ferrata. Si tratta di una via non troppo difficile ma assai lunga e per questo faticosa, noi poi abbiamo gli zaini piuttosto carichi avendo inserito la salita all’interno di un minitrekking di tre giorni.
Arriviamo in punta verso le 12 dove ci attende un panorama fantastico! Si distinguono, a 360 gradi tutti i principali gruppi dolomitici. Pur non essendo “di casa” riconosciamo Marmolada, gruppo del Sella, Antermoia, Sassi lunghi e piatti, Pale di San Martino e altri ancora.
Io sono piuttosto stanco e per questo un po’ preoccupato...mi sovvengono le sagge parole sentite negli anni da altri frequentatori della montagna “ arrivati in punta non si è neanche a metà dell’opera”. Un po’ di riposo , tanta acqua (l’ho già detto che faceva un caldo boia?) e un po’ di provvidenziale frutta secca dell’OrcoCamola mi fanno riacquistare le forze. Scendiamo di 200 m. su infido sentiero e siamo al rifugio Torrani, un nido d’aquila incastonato nella roccia. Poco sotto c’è il bivio, da un lato la discesa per la normale (che poi, leggendo le relazioni, tanto normale non è…) a destra la discesa tramite la Ferrata Attilio Tissi. Una ferrata in discesa! mai fatta, le gambe cominciano a tremare… La prima parte si dimostra in realtà abbastanza agevole, bei traversi, qualche parte più verticale ma poco esposta e ben protetta. Ben presto però la ferrata ci darà del filo da torcere. Discese al buio, pochi appigli e tanto verticale. In un punto si passa anche in mezzo ad una cascata che contribuisce ad un generale raffrescamento, ma anche ad aumentare la tensione, adesso la roccia è anche viscida.
La stanchezza aumenta, comincio a sentire le braccia di ghisa, gambe molli, e respiro più corto. Riesco però a rimanere concentrato e grazie ai preziosi consigli e aiuti di Andrea e Germano scendiamo e cominciamo ad assaporare la fine della ferrata ed i piedi finalmente per terra,
Un ultimo ravanage dovuto a un nevaio perenne che copre il cavo di un pezzo di ferrata e siamo giù, ai piedi del gigante. E’ un ambiente veramente incredibile. Centinaia di metri di roccia sulle nostre teste, nessuno in giro (abbiamo trovato solo tre persone che salivano dalla Tissi)
Il più è fatto, ci diciamo, siamo contenti e soddisfatti. Sono le 16.30 dobbiamo solo più raggiungere il rifugio Vazzoler dove passeremo la notte. Guardiamo la carta e ci rendiamo subito conto che si, le difficoltà sono passate ma quel puntino che indica il rifugio non è poi così vicino.
Scendiamo per prati, e pietraie fino ad arrivare ad una bosco di pino mugo, alla base di due spettacolari torri, Torre Venezia e Torre Trieste. Per arrivare al rifugio ci vorranno ancora ore. Facciamo infatti il nostro ingresso al Vazzoler verso le 19.15, ben oltre le 12 ore di cammino. Per fortuna qui la cena è servita fino alle 20! Alle 21.30 cadiamo sfiniti nei letti della nostra micro stanzetta dove dormiamo con la finestra aperta (per il caldo…).
Il giorno dopo il programma è decisamente più rilassante. Si tratta di una lunga camminata, dal dislivello contenuto per chiudere l’anello del Civetta.
Partiamo verso le 8 (e fa caldo…) e presto siamo al cospetto della parete nord del Civetta, alpinisticamente la parete più famosa di questa montagna, dove ci sono le vie di salita più celebri, famose per lunghezza e difficoltà.
Deviamo leggermente per passare dal rifugio Tissi che si trova su uno spalto erboso di fronte alla parete nord. A mia memoria si tratta di uno dei rifugi che gode della più spettacolare vista su una parete di montagna.Ne approfittiamo per una seconda, ottima colazione a base di torte preparate in casa e poi ci incamminiamo verso il ritorno che prevede il passaggio per il lago Coldai e poi nuovamente per l’omonimo rifugio
Scendiamo alle macchine dove ci aspetta il solito caldo infernale.
Per il giorno dopo non abbiamo programmi ben definiti, la stanchezza accumulata ci ha fatto desistere dal salire per la via normale al Pelmo ed allora decidiamo di cercare un alberghetto più a valle dove poter fare una doccia come si deve e meditare sugli obiettivi dell’indomani.
Con pochi euro troviamo un ottima stanza e dopo una lunga e generosa doccia siamo di nuovo a pensare a come faticare il giorno che seguirà.
Scartiamo nuovamente l’idea dell’ascesa al Pelmo anche perchè le relazioni che troviamo in rete non la descrivono come una banalità e decidiamo di percorrere il più tranquillo periplo della montagna.
Il giorno dopo quindi, dopo un’ottima colazione, ci avviamo verso l’attacco del sentiero, al passo Staulanza.
La prima parte si svolge in una fantastico e ombreggiato bosco con pendenze minime e soprattutto con zaini leggerissimi!!
Dopo una deviazione per vedere antiche orme di dinosauri,siamo di nuovo sul sentiero che in ci porta verso il rifugio Venezia. Tempo di un panino e una birra e siamo di nuovo in marcia (al caldo…) per affrontare il passaggio più ostico del periplo del Pelmo. Si tratta di una “forcella”, come chiamano i passi/colli da queste parti, su terreno infido, ripido e a tratti esposto. La discesa sull’altro versante è invece meno ostica ma anche qui il terreno è spesso scivoloso per via del ghiaino che ricopre sempre, quasi tutti i sentieri in quota.
Arriviamo alla macchina prima dello scatenarsi di un temporale (di calore, non rinfresca nemmeno l’aria) e ci dirigiamo in albergo. Dopo la doccia siamo pronti per una rutilante serata mondana in quel di Alleghe,a circa mezz’ora di auto da noi, nell’agordino.
Il giorno dopo, ci tocca partire e tornare in pianura. Decidiamo di farlo con calma, passando dal passo Fedaia per ammirare la Marmolada e poi scendere dalla val di Fassa
Lungo tutta la nostra permanenza abbiamo dovuto ahinoi constatare dal vivo gli effetti disastrosi del ciclone Vaja, che si è abbattutto nell’ottobre 2018 su tutta l’Italia del nord ma nel nord-est in particolare. Nei giorni precedenti nel versante zoldano abbiamo visto parecchi alberi abbattuti. Solo l’ultimo giorno però abbiamo colto appieno la drammaticità dell’evento. Il versante agordino, e poi verso il Passo Fedaia, la natura si è scatenata con una violenza inaudita abbattendo centinaia di migliaia di grossi alberi su interi versanti delle montagne,
L’acqua di piccoli torrenti ha distrutto strade e provocato frane. I bellissimi Serrai di Sottoguda, una forra con pareti altissime dentro cui passava un torrente con a fianco una bellissima stradina percorsa da ciclisti e camminatori sono ora completamente devastati. In quei giorni avevo visto foto e immagini, ma devo dire che dal vivo l’impressione è stata veramente tanta. Rimarginare una tale ferita sarà sicuramente difficile. Speriamo che almeno serva da monito per rimarcare che una delle principali questioni da porre nelle agende politiche, a tutti i livelli è quella ambientale. Le sfide sono ambiziose, abbiamo bisogno di classi dirigenti lungimiranti e preparate.
Il discorso però si fa complesso, questa non è certo la sede per affrontarlo. nel mio piccolo mi limito a ringraziare gli ottimi compagni di viaggio e la fortuna di poter comunque godere di così tanta bellezza!:
W Gli Orchi. W la montagna!
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