Foto TransGranCanaria 2015
Sito TransGranCanaria
Dal racconto dell'OgreDoctor alla 125km
Transgrancanaria 2015 – Una Meta un Sueno – a Goal a Dream
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
(Da Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di G. Leopardi)
Ore 23.00 di venerdì 6 marzo 2015: è una luna solitaria e maestosa quella che risplende in alto nel cielo del Puerto de las Nieves nel comune di Agaete.
La gara parte da qui nella costa nordoccidentale dell’isola di Gran Canaria, dove una volta, prima che la tormenta tropicale Delta, nel 2005, ne causasse il crollo, lasciando in piedi solo la parte di roccia sottostante, si poteva ammirare Il Dedo de Dios (o Roque Partido): un dito puntato verso il cielo.
Verso il cielo! Mi sembra un giusto modo di vedere le cose! Si parte, infatti, in salita e non si scherza per niente. 1200 metri di dislivello con sentieri tecnici e scivolosi, affrontati alla luce tremolante della frontale.
Immediatamente il gruppo si sgrana e dietro si fa il vuoto. I primi 10 km sono durissimi e non so in che posizione sono. Non lo saprò fino al giorno dopo, quando darò un’occhiata ai risultati, ma l’impressione in gara era giusta: il gruppo è diviso in due tronconi quasi speculari ed io viaggio più o meno nelle retrovie del primo.
Mantengo una velocità sostenibile intorno ai 5,4 km/h con punte vicino ai 6,7 km/h fino a Teror. Arrivo a questo ristoro in 10.07.38 percorrendo circa 56,4 km e 4615 metri di dislivello positivo. E’ grosso modo la distanza e il dislivello della Tre Rifugi Val Pellice che due anni prima avevo chiuso in 9.40 circa.
Alle 7.00 del mattino ero transitato per Fontanales da dove partiva la Advanced di 83 km e 4500 D+. Dopo poco vedo sfilare gli atleti davanti a velocità doppia, anzi tripla. Penso, per rassicurarmi un po’, che loro In fondo sono appena partiti, noi con il pettorale “blu” abbiamo già una nottata sulle gambe.
Con le luci del mattino il paesaggio diventa più famigliare e accogliente. Le case sono tutte più o meno simili, con il bianco dell’intonaco che si staglia nell’azzurro del cielo e i tetti piatti tipici dei paesi caldi. Sono piccoli villaggi, barricados, così si chiamano.
Nei giorni immediatamente precedenti alla gara, con la famiglia ho potuto fare un giro dell’isola, che in un giorno, con la macchina, si può percorrere lungo tutta la sua circonferenza. Ci siamo fermati a mangiare nella città Tunte e di Artenara, che scoprirò poi essere dei punti di ristoro.
Inerpicandomi (i bambini mi perdoneranno) su per strade e tornanti di montagna, siamo arrivati fino a sotto il Roche Nublo e al Pico de las Nives, montagne che avrò la fortuna di ammirare da vicino, molto più vicino, durante la gara.
Da qui in avanti si comincia soffrire sul serio. Ci sono altri 1200 metri di dislivello secchi fino alla Cruz de Tejeda, una discesa di 500 metri e di nuovo una salita impegnativa di 700 metri di dislivello fino al Roche Nublo.
Mi rimane ancora un poco di fiato per fare una foto al picco. Passo al punto di controllo sotto la cima e via in direzione di Garanon, un campeggio di montagna a circa 1500 metri di quota con un ristoro finalmente degno di questo nome.
E’ il punto nodale della gara. Qui sono stati recapitati i pacchi con la materiale di ricambio e qui molti atleti decidono di abbandonare la gara.
Un po’ li capisco, soprattutto i “tapasciones” come il sottoscritto. All’85 km e con 6000 metri di dislivello nelle gambe, la fatica è qualcosa che si fa veramente tangibile. Lo si capisce dal fatto che si ha paura di sedersi, sapendo che probabilmente le gambe non ti consentiranno di alzarti nuovamente. I movimenti sono goffi e limitati all’indispensabile, soprattutto i piegamenti, che si traducono in una immediata stilettata ai quadricipiti.
Capisco un po’ meno i “top runner”, salvo quelli che hanno problemi seri con infortuni o problemi di salute. Abbandonare una competizione solo perché non si riesce ad esprimersi al massimo o a chiudere nelle prime posizioni, come si è abituati, non è un esempio di sportività in assoluto, né di “spirito trail” e non è nemmeno rispettoso per tutti quegli atleti che invece a dispetto della fatica cercano di portare a casa la gara con il solo obiettivo di essere “finisher”.
Ho mangiato poco fino a questo punto della gara. Non è che non ne avessi voglia o non ne capisca l’importanza, ma gli organizzatori hanno pensato bene di non servire la minestra, dispensata in un unico punto, ad Artenara al 35 km. Formaggio, salumi, pane, tutti alimenti, che in condizioni di fatica estrema sono difficili da masticare e deglutire. E così mi arrabatto con un po’ dei miei gel e un po’ di arance. Senza carboidrati il motore non funziona e peggio il nostro cervello, che da solo consuma il 15% delle risorse glicidiche, finisce per spegnersi.
A Garanon finalmente trovo la pasta e insieme mi faccio servire tre bellissime succulente patate! Come basta poco per essere contenti; è sufficiente avere una fame da lupo! Non mi cambio, proseguo con i vestiti con cui ho iniziato e con le medesime scarpe; le Cascadia sono proprio delle pantofole, anche se sulle superfici scivolose, rendono giustizia al nome che la casa produttrice le ha assegnato.
Mi rimane la salita al Pico Nieves e un'altra più breve per arrivare ad Arteara e poi gli ultimi 18 km all’arrivo. Riparto di buona lena e dopo la salita al picco, mi riporto su una velocità superiore ai 5 km/h che riesco a mantenere fino al penultimo ristoro. Sono passate ormai 22 ore e ho digerito circa 110 km e 8250 metri di dislivello positivo.
E’ fatta, penso, e invece da questo punto in avanti gli ultimi 18 km sono una corsa ad ostacoli, sentieri tecnici esposti, corsa in un canale pietroso, spiaggia….li possono amm…
La corsa lentamente, ma inesorabilmente diventa una camminata, l’obiettivo accarezzato di stare sotto la soglia delle 24 ore sfuma e mi accontento di arrivare alla fine.
La gara è stata estenuante, impegnativa dal primo all’ultimo chilometro.
Il vento caldo mi ha sferzato il viso per tutta la notte e il giorno successivo, portando con sé la sabbia dei sentieri alzata dai trailers.
Unica per l’atmosfera e gli ambienti attraversati così diversi da quelli a cui siamo solitamente abituati.
Certamente particolare come esperienza per la solitudine che l’ha caratterizzata.
E’ stato un lungo viaggio interiore, un momento speciale per ricaricarsi, per lasciare alle spalle un po’ delle ansie del mondo, degli inutili tormenti che caratterizzano il nostro quotidiano. Svuotarsi per ricominciare.
Nessuno con cui parlare, nessuno con cui condividere la fatica, i dubbi. Un lungo, lunghissimo soliloquio in compagnia di questa splendida luna che, lassù nel cielo, guarda silenziosa tutte le stranezze di questo mondo.
La mente vaga da un pensiero all’altro incessantemente, più veloce delle mie gambe. E’ già arrivata al traguardo, è già a casa con i mie bambini e mia moglie che mi seguono su Facebook, poi ritorna, è di nuovo con me, mi sostiene, mi incoraggia.
Le gambe sono stanche, pesanti, le spalle doloranti, segnate dallo sfregare dello zaino, ma lo spirito è forte, indomito, lo so, lo sento, anche questa volta mi porterà alla fine. Vai OgreDoctor!
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