venerdì 26 agosto 2011

Ultra Trail du Mont Blanc UTMB 26-28 Agosto 2011

Video UTMB 2011
Sito UTMB

Racconto TDS Sur les Traces des Ducs des Savoie 2011

Dal racconto di Franco Longo


Arduo trovare il margine temporale di partenza di questa avventura. La data del sorteggio ? Quella della prescrizione ? L’anno scorso ? La decisione di partecipare 2 anni fa ?

Decido per un momento per me fortemente simbolico.


Venerdì 26/08/2011 ore 00.28
Chiudo definitivamente lo zainetto, la borsa per la partenza e le sacche che Enrica mi farà trovare in Svizzera.

ore 1.00-6.00
Entro nel letto bollente, inizio a girarmi e rigirarmi, accendo ventilatore, lo spengo, lo riaccendo, spalanco finestra, la socchiudo, un delirio, leggo qualche pagina di “Otel Bruni” di Valerio Manfredi; verso le 2 riesco ad addormentarmi e farmi quelle due ore di sonno che saranno le uniche di tre giorni. Alle 4 mi sveglio; riparte la sarabanda di gesti e movimenti, ma non voglio ancora alzarmi.
Alle 6,00 via gli indugi: è il giorno dell’UTMB che aspettavo da 1 anno, forse da 2, forse inconsciamente da sempre, ancora prima che l’UTMB esistesse.

ore 6.00 -10.00 
Robusta colazione e via per Santhià a raccattare Leo alla stazione ferroviaria. Alle 9,45 con una puntualità tutta trailer arriva la 147 di Alessandro. Il team è pronto e prende la strada per le Mont Blanc.

ore 10.00-12.30 
Sereni e pacati argomenti di conversazione, un meraviglioso caffé a La Palud; in coda per passare il traforo arriva l’SMS dell’organizzazione, che ci dice che la partenza è spostata alle 23,30. Proprio quello che desideravo, altrimenti il maltempo avrebbe seppellito per il secondo anno consecutivo l’UTMB e i miei sogni.
Alle 12,30 siamo a Chamonix; sole, caldo e il popolo del trail nella sua mecca.

ore 12.30 – 23.30
Parcheggiamo la macchina al Brevent e giù verso il rituale del ritiro pettorale, consegna sacche, pranzo, riposo e riposo e riposo. Il tempo magicamente passa grazie alla splendida compagnia di Ale e Leo, due autentici fratelli trailer, che mi sembra di conoscere da sempre; uno che ti offre un passaggio, dichiarandosi felice di non andare da solo e uno che affronta l’UTMB partendo in treno da Verona, sono di per sé belle persone, ma è stato straordinario, proprio perché inaspettato, il rapporto che si è creato fra di noi e che ci ha consentito di scendere in piazza sereni e consapevoli delle proprie forze. A posteriori, la prestazione di Ale è stata una delle cose più belle dell’UTMB e il ritiro di Leo una delle più tristi. Vivendo questi rapporti molto forti per un obiettivo così comune e fortemente condiviso, mi viene quasi da pensare a quello che poteva il rapporto che si instaurava fra i legionari romani, i crociati o anche i terroristi. Da pacifista convinto il pensiero mi sgomenta, ma tant’è che il cemento ideologico di un obiettivo comune è quanto di più forte esista per unire le persone.

Il tempo atmosferico, come da previsioni, si scatena: pioggia, vento e freddo. Curioso come mezzora dopo mezzora aggiungiamo capi di vestiario, partendo in questo modo vestitissimi, ma almeno staremo più o meno asciutti. Ci facciamo ancora una pasta, un paio di bicchierozzi di vino ed un caffè: siamo carichi e vogliamo sfidare il diluvio che si sta abbattendo sulla Haute Savoie.

Mi ritrovo con il team di Billy the Kid: Andrea Falomo (il propugnatore dell’idea che ci ha consentito di fare squadra ed essere sorteggiati), Alessandro Visentin e Renzo Cevro Vukovic di Portogruaro, Nicola Dainelli, splendido toscanaccio, Claudio Caffi, milanese che mi sembra preoccupato e il mio compagno del Valdigne – amico spero per sempre Max Micarelli – ticinese di sangue più mediterraneo che mitteleuropeo. Non si è presentato Michelozzo e di questo mi dispiace. Per me questo incontro vicino al bancomat vestiti tutti di mantelline, pantavento e cappelli è stato bellissimo perché mi sono sentito parte di un qualcosa e non solo un cane sciolto che tenta un’impresa sportiva.

E’ ora: 45 minuti prima siamo sulla piazza. Diluvia, lo zainetto è sotto la giacca a vento. Il meteo ci risparmia tanti discorsi … tutti sembrano avere fretta.

ore 23.30 – 00.30
Siamo partiti per l’UTMB. Noi del gruppo eravamo tutti insieme, ma nella calca sono rimasto solo. Corricchio al ritmo del fruscio dei pantaloni antiacqua, che si riveleranno un accessorio straordinario. Claudio e Renzo corrono appaiati: mi superano. Io ho un ritmo finisher e in tantissimi mi superano. Piove forte. Sono meno emozionato dello scorso anno: in fondo è un dejà vu, ma l’atmosfera è sempre coinvolgente. Sono sereno e in cuor mio so che tornerò a Chamonix da finisher. Potrà esserci l’imprevisto, ma la mente è cablata su un solo obiettivo e quello dovrà essere. Enrica sul percorso, la mamma che mi segue a distanza con gli SMS, gli amici con Marco capo ultrà, il pubblico, le montagne, la magia del Bianco; posso tradire me stesso e tutti loro ? Questa determinazione è addirittura spaventosa e mette in secondo piano sensazioni ed emozioni che dovrei vivere con più trasporto.

Sabato 27/08/2011 ore 00.30 – 1.43 
Salita al Delevret: vento, pioggia e freddo. Lunga fila, quasi una noia, ma ci sono le avverse condizioni atmosferiche da combattere, ergo vigilanza estrema a non aver freddo e a bere poco, ma spessissimo. Sono molto indietro: 1553-mo.

ore 1.43 – 2.49 
Subito in discesa, senza indugiare oltre. C’è un ristoro, ma non ci penso neppure a fermarmi un istante perché morirei di freddo. Il fango fa sentire la sua presenza; gli equilibrismi si sprecano. Penso a come è sceso Kilian qualche decina di minuti prima. Un’impennata di orgoglio a pensare che sto pestando lo stesso fango dei campionissimi. Primo volo spettacolare con le mani che sembrano entrate direttamente in un vaso gigante di nutella; i pantavento sono diventati marroni. La sensazione è sgradevole, ma pare che la pioggia stia cessando. Altro volo su un traverso, mi rialzo e cado di nuovo; e meno male che mi ritengo uno sciatore provetto. Raggiungo Andrea Billy e Alessandro e facciamo insieme il tratto di discesa sino a Saint Gervais. Inevitabile pensare allo sconforto, alla disperazione, al mondo crollato qui lo scorso anno alle 21,50 di sera. Oggi il meteo è anche peggio, ma il tutto è stato pianificato in modo diverso e ci giocheremo le nostre chances di finire l’UTMB. Raccatto qualcosa al volo da sgranocchiare e mi sistemo sulla scalinata in pietra all’uscita dal ristoro (che bello sentire il calore della gente che ti riscalda dal grande freddo) per cambiarmi le calze e togliermi i pantavento. Pioverà ancora ? Nel dubbio voglio essere ottimista e pensare che Giove Pluvio quest’anno vorrà bene ai trailer. Ho recuperato circa 200 posizioni, ma la classifica è l’ultima cosa a cui penso.

ore 2.49 – 4.37    
Ora penso a tenere un ritmo nè alto, nè basso e ad arrivare bene a Les Contamines. Inizio a spezzettare la gara in tappe intermedie; non penso né ai colli, né a Courmayeur, né alla Suisse; Chamonix ? Sorry, what do you mean ? Sono felice di iniziare una strada nuova, vedere montagne nuove, pestare sentieri nuovi. Entro a Les Contamines sorpreso dalla tanta folla. Il ristoro è un caos: nuovamente afferro qualcosa al volo e via nella notte che presto dovrà lasciare posto al giorno. 1367-mo.

ore 4.37 – 6.26
Forti suggestioni di fronte al Santuario di Notre Dame de la Gorge; confluiscono nella mia mente le tante storie di alpinismo legate a questi piccoli santuari, le storie di gente antica di montagna, che ora forse sarebbe un po’ stupita di vendere questa mandria di 2.300 persone arrancare per gioco su sentieri che un tempo erano la strada di caccia, pascolo, commercio, contrabbando. Iniziamo la lastricata in salita; sto bene, ma cerco di mettere giudizio e di avere ancora una buona riserva per il “dopo”. Il “dopo” è un concetto che più volte passerà nei miei pensieri e che cercherò di restringere al massimo temporalmente e spazialmente, costringendomi sempre a non vedere oltre il prossimo ristoro. Le stelle cominciano a svanire; ragazzi è la mia alba (l’aube), la mia prima alba e sto facendo l’UTMB. Mi ritorna quel pensiero strano che morire adesso sarebbe una cosa bellissima, perché sto bevendo dal calice della vita quello che amo di più. Sono felice di vedere Leo; facciamo un pezzo di strada assieme; mi dice dei suoi problemi al tendine che non gli consente una corsa rilassata. Leo lo conosco da 20 ore, ma mi da l’aria di un “acciaione” che non sarà un tendine a mettere in tilt. Arriviamo insieme al grande falò della Balme che è praticamente giorno fatto. Mangio una fetta di salame, pane e come sempre tanta coca cola. La lunga fila su in alto mi fa tornare il pensiero del “dopo”; suvvia l’UTMB non è una passeggiata. Leo mi dice di andare che lui si fermerà ancora un attimo. Sono 1293-mo.

ore 6.26 – 8.00
Finalmente una vera salita, una salita alpina di quelle che piacciono a me. Si sta salendo al Col du Bonhomme. Ottime sensazioni, sto bene e sono felice. Penso tanto a tante cose e a tante persone; sono contento di sapere che tanta gente sta trepidando per me; vuol dire che mi vogliono bene e ne sono felice. Prima delle 7,30 transito al colle. Sul traversone che porta alla Croce, la lunga fila di persone ravvicinate non mi permette di scoreggiare in libertà perché scoreggerei in faccia alla persona dietro di me. Cerco di creare piccoli distacchi per poter espellere l’aria in eccesso e se in modo rumoroso tanto meglio, vive la nature ! Volteggiano due elicotteri sopra di noi ! Si vede che stanno facendo riprese. Si arriva al rifugio della Croix du Bonhomme in discesa mentre inizia a nevicare. 1217-ma posizione.

ore 8.00 – 8.46
Per me la discesa più veloce di tutto l’UTMB. Mi sembra di volare anche perché nevica e questo per me è sempre una magia, perché sto bene e perché voglio arrivare presto al mio traguardo di Les Chapieux. Mi gaso come un pavone, perché corro con un ragazzo francese che mi dice che è un piacere parlare con uno straniero che parla così bene la sua lingua – forse la notte gli aveva portato qualche disturbo nella capacità di giudizio. Laggiù nel trou c’è Les Chapieux; i nomi che ho a lungo sognato, accarezzato, bramato stanno diventando realtà.

ore 8.46 – 9.03
Mi scolo due coca cola stile rutto galattico e finalmente mi siedo. Non lo so ancora, ma lo stare seduto diventerà il sogno che mi accompagnerà da qui sino alla fine dell’UTMB; sedie, panche, sgabelli, sdrai, chaises longues, divani. Questo pensiero diventerà incubo: sedersi, seduto, sedia, sedere su sedia saranno i concetti paradisiaci del trail. Mangio una zuppa buona, pane, qualche biscotto e via verso l’Italia. Prima di uscire vedo Leo in canotta Spirito Trail e in forma smagliante. Mi controllano la presenza del telefono. C’è un messaggio di auguri di Enri che vedo solo ora. Con il cambiamento di orari sento che la vedrò a Courmayeur e sono sicuro che mi farà la sorpresa di portarmi Bianca. Penso a Biancuzza e mi sale un groppo alla gola. Sono 1160-mo.

ore 9.03 – 11.17
Esco sull’asfalto che ci accompagnerà per 4,5 km. Peccato perché si tratta di una valle maestosa che sarebbe stato bello percorrere su sentiero. Faccio 300 metri dopo l’uscita dal ristoro; mi risuona nelle orecchie il ticchettio dei bastoncini sull’asfalto dei concorrenti che mi precedono e …. dove cxxxo sono i miei bastoncini ? Lascio lo zaino a una coppia di signori francesi anziani, ma simpaticissimi che si dichiarano onorati di custodirmi lo zaino fintantoché tornerò con i bastoncini. Ripasso il controllo, scavalco una transenna, vado dove avrebbero potuto essere i bastoni e non c’è niente. Un flash ! Mi dò del coglione, perché mi viene in mente che li avevo smontati e messi nello zaino. Torno dalla coppia francese: “Mon ami ou sont les batons ? » dice lei con voce preoccupata. Vorrei risponderle che sono un piciu, ma non trovo una corrispondenza nella lingua francese. Gli farfuglio qualcosa che apres la nuit e la neige, la tete ne marche pas comme il faut e riparto. Dal dolce pensiero di Bianca passo alla trivialità della faccenda dei bastoni. E’ un episodio stupido, ma sgradevole e la ripresa sull’asfalto mi vede arrancare. Non ho un buon passo e comincio a sentire qualche assalto di stanchezza alle gambe. Mi dico che abbiamo abbondantemente passato i 50 km. e quindi ci sta. Mi rilasso, bevo e mangio una delle marmellatine appetitose di Decathlon. Qualche concorrente mi sfila a velocità doppia della mia. Ridicolo pensando alla salita che si dipana laggiù oltre all’alpeggio della Ville de Glaciers. Il cielo sembra diventare molto cupo, cade qualche goccia di pioggia. No, basta, per favore. Attacchiamo la salita e ritrovo un buono smalto. Salgo regolare senza strappi e penso che a breve arriverò al Col de la Seigne – Italia. Nonostante il buon passo, la pendenza non è mai troppa e così il dislivello viene fatto molto lentamente. Qualche tratto in piano. Tre francesi che viaggiano insieme parlano molto forte e continuamente; questo non mi piace: io sono per il silenzio del trail. Si può parlare prima e dopo; ci si può scambiare tante parole durante, ma non si può imporre ad altri la propria conversazione. Il sentiero è fangoso e d’un tratto qualcosa turbina spinto dal vento. E’ lei, la bianca neve che ci viene a trovare con le sembianze della bufera. Il vento è forte e mi costringe a tirare su il cappuccio per coprirmi la faccia. La neve ghiacciata danza sulla giacchetta e il bianco che c’è in terra fa capire che è una cosa seria. Il freddo mi blocca le gambe e il respiro; sono stanco e metto la marcia ridotta per arrivare al colle. Passo 1106-mo, ma il pensiero è solo quello di scendere al più presto.

ore 11.17 – 12.05 
Sentieri di fango e neve. Il menù dell’UTMB per pranzo ci offre questo. Faccio fatica a correre. Le gambe sono paralizzate dal freddo. Ho forse dato troppo nella prima parte della salita al Colle e adesso pago. Mi passano nuovamente alla grande. Nessun problema: mi rilasso, mangio una barretta e due marmellate e ci bevo sopra acqua e sali che sono diluitissimi. La magia si ripete ancora una volta: riprendo a correre bene e contemporaneamente appare il sole. Le nubi si squarciano e lo spettacolo della Noire di Peuterey mi dice che sta andando tutto nel verso giusto. Tira un vento fortissimo e non oso togliermi ne guanti ne cappello pesante anche quando scendiamo sotto quota 2.000. Recupero chi mi aveva passato ed arrivo al ristoro di Lac Combal in piena forma fisica e mentale. Un bicchierozzo di coca e via verso la quarta salita del menù giornaliero.
ore 12.05 – 13.12
L’Arete de Mont Favre è una salita inutile, ma ha il merito di regalarci una veduta lussuriosa del versante meridionale del Bianco. Siamo in una fase a metà fra il vento gelido e il caldo della progressione in salita. Nel dubbio preferisco stare al caldo e qualche goccia di sudore in più potrebbe diventare qualche grammo di energia “dopo”. Mi rendo conto che il dopo è rappresentato dalla sicura presenza di volti amici a Courmayeur e le energie ritornano a ribollire. 1001-mo.

ore 13.12 – 13.54
Una delle più belle discese del trail. Mi lascio andare, le gambe girano a mille e mi godo ogni passo. Finalmente il sole è uscito splendente in cielo. Il vento ha portato via le nubi e inizia a fare caldo. Dopo 14 ore di gara posso finalmente togliere la giacca. Una liberazione e la sensazione che oramai non sarà più il meteo a farci fermare. Se mi fermerò è solo perché sono io che non ce la faccio più. Che bello il ristoro al Col Checrouit: tavoli al sole sotto gli occhi del Freney e della Brenva. Mi fermo non più di tanto perché devo stabilire un contatto con Enrica. Piccolo neo: si spacca il moschettone della tazza trail e dovrò metterla nello zaino invece che appenderla. Era una comodità non da poco, ma direi che nell’economia di una gara da 40 ore ci può stare anche fermarsi, aprire lo zaino e tirare fuori la tazza. Sono sotto il 1000-mo posto in classifica.

ore 13.54 – 14.49 
Prima di iniziare la picchiata su Courmayeur chiamo Enri. Mi dice che sono ad Aosta e che stanno andando verso la Svizzera. Eh..no! Io ti sognavo a Courmayeur ad aspettarmi e tu mi vai in Svizzera! Gira la macchina e vieni ad aspettarmi che ho bisogno di volti amici. Tutti hanno assistenze varie e io non voglio recuperarmi il sacco e stare solo come un cane. Le dico chiaramente “Dolonne – Palasport”, perché forse arriverò prima io di loro. Rallento di proposito, evitando di spaccarmi le gambe sul ripidissimo sentiero. Richiamo; Enrica ha capito una mazza e mi aspetta in un posto che centra meno che niente. Le ripeto di venire a Dolonne e che non vada in alcun altro posto. Ho perso 13 posizioni e sono 989-mo.

ore 14.49 – 15.47
Risultato delle mie raccomandazioni: arrivo a Dolonne, mi recupero la sacca e mi siedo sugli scalini a perdere tempo ad aspettarla. Dopo qualche telefonata finalmente arriva, ma non la lasciano entrare nella zona riservata. Quindi salgo io: vado a farmi bloccare con del nastro un’unghia del piede che si sta staccando, mi cambio, prendo una pasta e della moccetta e scendo con il piatto in mano per mangiare con lei.

Vorrei fermarmi ancora un po’, ma c’è sempre un “dopo” e allora esco dal ristoro, mi godo il sole ormai caldo e l’applauso infinito della folla che mi fa sentire un piccolo eroe. Do un bacio a Enrica, dandole l’appuntamento a La Fouly fra 8 ore almeno.

ore 15.47 – 17.21
Riparto e attraverso Courmayeur fra indifferenza dei villeggianti chic e qualche timido applauso. Per mia fortuna all’altezza della chiesa mi vede Roberto Caucino di Biella che mette in scena un tifo da ultrà coinvolgendo tutti i pochi spettatori. Corre con me qualche centinaio di metri e mi abbraccia augurandomi buona fortuna! Sono in salita sull’asfalto: mi metto al passo e telefono alla mamma, tranquillizzandola sul mio stato fisico e mentale; direi che sta andando tutto bene e che il mio “dopo” per ora è la salita al Rifugio Bertone; dopo penseremo al “dopo”. Tic, tac, i bastoni battono sull’asfalto, alzo gli occhi: Marco e Paolo che mi stanno venendo incontro. Le persone migliori che potessi incontrare in questo momento; vorrei fermarmi a bere una birra con loro, raccontare loro di tutto quello accaduto in queste 17 ore di corsa; fantasticare su quante e come saranno le restanti, ma ho già sforato un po’ a Courmayeur: occorre riprendere e anche di buona lena. Un abbraccio fra granata e loro tornano a valle, io mi dirigo verso la seconda notte intorno al Bianco. Passano non più di 5 minuti e una sagoma da lontano allarga le braccia per incitarmi con un abbraccio. E’ lui: il mito del trail – Giuliano Pavan che ordina alla moglie di scendere perché lui deve risalire 2-300 mt. con me. Sono travolto dalle emozioni di questi incontri: attacco il Bertone con passo lieve e gioia nel cuore. Fa caldo, ma non durerà troppo a lungo. Al Bertone mi fermo una decina di minuti perché ho chiesto ad una dell’organizzazione un pezzo di filo di ferro per riparare alla bell’e meglio il moschettone della tazza. Scompare e non la vedo più. Mentalmente la mando a stendere e lascio il ristoro. 975-mo.

ore 17.21 – 18.53
Traverso in alto sulla Val Ferret. Tramonto delirante sul Bianco, sul Tacul, sul Dente del Gigante, la Cresta di Rochefort, sulle imponenti muraglie delle Grande Jorasses. Mi sento un pigmeo, un nulla di fronte alla maestosità del signore delle Alpi. Penso a Bonatti, a Desmaison, a Gervasutti a Casarotto, penso a cosa potrebbero pensare di noi in calzoncini e maglietta a sfidare non la verticale, ma se stessi sulla resistenza, la tenacia, la determinazione nel non mollare mai. E’ dura, si alza nuovamente il vento, i saliscendi tagliano le gambe. E “dopo”? Arriva un SMS dell’organizzazione che dice che la Bovine è annullata; si scenderà a Martigny per risalire verso Trient e la Valle di Chamonix. Due numeri: 170 km e 9.700 mt. di dislivello. Faccio un rapido calcolo mentale e rifiuto immediatamente il risultato. Se mi fossi soffermato su questo forse mi sarei fermato. Nessun km. e nessun dislivello: adesso si arriva al Rifugio Bonatti. Non voglio sapere quanto e quando: un pezzo per volta e se sentirò di arrivare allo stremo delle forze non sarò tanto imbecille da proseguire. Arrivo al Bonatti con salitella; decido di fermarmi e di iniziare a coprirmi. Altro che iniziare a coprirsi. Il sole cala e mi metto addosso tutto quello che ho. Bevo due tazzone di brodo, perché sento davvero tanto freddo. 955-mo.

ore 18.53 – 20.08
Imposto il mio cervello sul nuovo arrivo. Il “dopo” adesso si chiama Arnuva e voglio arrivarci prima che venga buio, per potermi adeguatamente preparare per la deuxieme nuit. Penso che i primi stiano arrivando a Chamonix. Che invidia splendida per questa forza. Mi rotolo sui lunghi traversi e nell’ultima discesa vado più che bene, scendendo ancora con sufficiente agilità. Sta venendo scuro. Mi siedo almeno un quarto d’ora; brodo, moccetta e pieno d’acqua. 931-mo.

ore 20.08 – 22.00
La deuxieme nuit. Dico ad un gruppo di spettatori che ci incoraggia che per noi questa è “la fievre du samedi soir”; non so se capiscono, ma si mettono a ridere. Riparto con un inglese e stiamo insieme una ventina di minuti, poi parte ed io rimango solo. Non accendo la frontale godendomi lo spettacolo dell’infinita fila di luci per tutta la Val Ferret. Uno spettacolo da brividi. Salgo, ma il passo non è più elastico. E’ piuttosto stanco e il freddo non aiuta certo a conservare energie. La salita al Grand Ferret è lunga e noiosa e sono stanco di salite. Ho già battuto il mio record di dislivello. Una vocina mi dice: “Ma lo sai quanta strada hai ancora da fare “dopo” ?” Ricaccio la voce del “dopo”; penso ad arrivare a questo colle e poi vedremo. Da staccati che eravamo ci ricompattiamo in tanti in fila indiana, quasi volessimo creare un effetto stalla contro il freddo, o quasi avessimo paura della notte. E non poteva mancare un ultimo elemento atmosferico: le brouillard che pur non essendo particolarmente fitta, getta un po’ di sgomento in quanto vengono a mancare anche i più semplici riferimenti spaziali. Fa freddo e, strano a dirsi essendoci la nebbia, tira anche un’aria che verso il colle è tagliente. Il cappuccio è nuovamente costantemente alzato ed è una follia pensare a togliere i guanti anche solo un istante. Peccato aver perso la splendida visione della colonna di luci che procedeva nella notte. 875-mo.


Domenica 28/08/2011 ore 22.00 – 00.21
Avevo la sensazione che la discesa sino a La Fouly fosse lunga, ma la realtà è andata oltre le peggiore delle supposizioni. Inizio bene la discesa superando tantissimi concorrenti, ma poi probabilmente il freddo mi blocca ancora una volta i muscoli. Faccio fatica e mi abbatto un po’ per tutti i saliscendi che non consentono di perdere dislivello. Mangio le solite marmellate, ma sono un po’ down. Del resto la stragrande maggioranza dei compagni di viaggio ha la stessa birra che ho io e quindi a livello di posizione di classifica continuo ad essere in recupero. Anzi di fronte ai miei occhi appaiono le immagini che sinora avevo solo visto nei video: le persone che dormono avvolte nei teli termici ai bordi del sentieri. La cosa mi chocca un po’, anche perché il sonno mi sembra essere l’unica cosa che riesco a gestire bene. Mi mentalizzo sul fatto che vedrò presto Enrica ed è una consolazione alla brutalità di questa discesa eterna. Quando pensi che scenderai, sali, quando pensi di vedere una luce c’è un bosco. Dopo l’arrivo a Ferret una terribile salita di 200 mt. di dislivello, un coltello alla schiena. Improvvisamente la Fouly; Enrica mi chiama, ci siamo, corro con lei sino al ristoro. Adesso mi siedo un po’ ! 816-mo.

ore 00.21 – 1.14
Sono stanco, ma penso al mio “dopo” che vuol dire Champex e vedo tanta gente intorno che pare essere più in crisi di me. Un vero e proprio lazzaretto con i pullman dei ritirati che si riempiranno di trailers vinti dall’UTMB.
 Mangio solito brodo e fondamentalmente sto seduto. Cerco di tenere ferme le gambe perché c’è ancora tanta tanta strada con l’incognita della terribile variazione di percorso che nessuna sa cosa sarà effettivamente. Una spazzolata di denti mi restituisce molta freschezza. Mi congratulo con me stesso per aver avuto l’idea di far portare a La Fouly spazzolino e dentifricio. Pare che sino a Champex la strada sia lunga e dura; decido di partire e se avrò la possibilità magari schiaccerò anche un microsonno. Saluto Enrica, felice di poterla rivedere al prossimo arrivo a Champex. La Fouly mi impressiona davvero; qui si comincia davvero a percepire la crudeltà dell’UTMB, lo stress dei cancelli orari, la devastazione. Sento di avere ancora spazio prima del limite, ma ……

ore 1.14 – 4.30
Le ore più dure dell’UTMB. La notte, la stanchezza, la strada. Usciamo da La Fouly in quattro. Quattro zombies che vagano nella notte. Quando la strada scende inizio a correre e nessuno mi segue. Pietre, radici, salti. Io pensavo ad un tranquillo avvicinamento, ma questo è l’UTMB. Sudore, lacrime e sangue. Vedo tante cose muoversi; vedo case che poi sono alberi, vedo i disegni fluorescenti sulle scarpe, gli zaini e le tute dei trailers che ballano nell’oscurità. Mi viene in mente una scena del libro di Faletti “Io uccido” che ricorda esattamente queste movenze. Mi raggiunge una coppia di spagnoli, facciamo un tratto di strada insieme, pur senza chiacchierare troppo. Restiamo imbottigliati dietro ad un giapponese in un punto stretto di sentiero a strapiombo sulle gole. Non ne vuole sapere di togliersi dai piedi, probabilmente nella cultura del sol levante non esiste il concetto di lasciare strada. Peccato aver fatto questo tratto di strada di notte, perché penso che sia veramente bello. Adesso un argine con alberi a destra e sinistra. Andiamo avanti e sembra essere una strada infinita. Un passo dopo l’altro, una via crucis. Adesso non apprezzo l’UTMB, adesso non penso più a nulla di bello. La poesia romantica dell’UTMB ha lasciato il posto alla devastazione, al freddo, all’esaurimento delle energie. Dai Frank, svegliati, che tua moglie e tuo suocero ti aspettano qualche km. a valle, tua madre, tuo padre e tuo fratello sono attaccati a PC e cellulare, i tuoi amici trailer non ti possono accettare che da finisher, i tuoi figli dovranno vederti un po’ eroe. Ho freddo, ho tanto freddo e i muscoli delle gambe sono bloccati. Case, finalmente case! Sarà Praz de Fort ? Avevo letto di un rifornimento spontaneo organizzato da bambini. Speriamo ci sia qualcosa, ho bisogno di sedermi anche solo un minuto. Davanti a me un  trailer procede barcollando; scarta violentemente e va a sbattere contro la recinzione di una casa. Si siede per terra prendendosi la testa fra le mani. Mi avvicino preoccupato; è una ragazza, anche carina, che mi dice in inglese che ha sonno e che forse si è addormentata mentre camminava. Finiscono le case e di ristori neppure l’ombra: che delusione, che tristezza, che stanchezza ! Una strada in ghiaia, un sentiero, di nuovo asfalto. Luci di case, una fontana, mi fermo a bere con avidità, dal momento che l’agognato ristoro sembra sparito. Ops, come non detto, uno splendido braciere in mezzo alla strada contornato da bottiglie di vino e di liquori. E’ un ristoro familiare di splendide persone che hanno deciso un omaggio personale all’UTMB. Mi offrono un the, avvertendomi che è bollente e chiedendomi se voglio aggiungere dell’acqua fredda; con il freddo che ho in corpo trangugerei anche i tizzoni ardenti del braciere, vicino al quale mi siedo, passando 5 minuti bellissimi con questi svizzeri (o francesi) che mi raccontano dell’esito della gara a Chamonix con la doppietta spagnola e il terzo posto francese. Mi congedo ringraziando e augurando buone notte, mi rispondono che “la nuit est presqu’e terminée”. Già, l’UTMB inghiotte i minuti e le ore e passi da tramonto ad alba senza rendertene conto. E adesso la salita a Champex che intuisco sarà robusta. Faccio trenino con tre francesi; nessuno parla; si procede e io sono tanto stanco; salita, salita, ancora salita, ma l’altimetro mi dice che il dislivello che ho fatto è poco e che occorrerà ancora ravanare e tanto per arrivare a Champex. Musica assordante: forse le allucinazioni ? No, è un punto di controllo che ci becca per evitare che qualche astuto si faccia la strada in macchina. Saliamo ancora e poi …. Si scende. Noooo, non posso perdere dislivello adesso. E’ come costruire un castello di sabbia al mare e un’onda o un deficiente te lo distruggono. Riprendiamo a salire, e di nuovo l’onda o il deficiente ci fa andare in discesa. Mi chiedo se Champex è solo una proiezione della mia mente oppure un posto fisico, in cui troverò Enrica, una zuppa calda e un cambio di abiti. Una signora da una baita ci dice che Champex è vicina. Diffido delle indicazioni, ma mi sorprendo a notare che tutti, ovunque e a tutte le ore del giorno e della notte sono ad incitarti con il loro “Bravo ! Bon Courage ! Allez !”. Non nascondo che tutto questo incitamento alla fine diventerà addirittura sfibrante. La signora della baita però aveva ragione: un po’ di ravanamento e poi il gracchiare dell’altoparlante ci fa capire che ci siamo. 746-mo.

ore 4.30 – 5.42
L’appuntamento con Enri era volante e arrivando non la vedo. La prima cosa che faccio è stendermi su una panca di legno, chiudendo gli occhi per qualche istante. Tiro fuori il telefono per chiamare Enri ed Enri si materializza. Mangio con lei, ci parliamo a lungo e mi da una notizia sensazionale sul percorso. Rispetto a quello che avevo pensato ci saranno almeno 1.000 metri D+ in meno.
Quello che ho ancora davanti a me è l’equivalente del Trail del monte Casto: è fatta ! Ormai nemmeno una diga mi fermerà. Decido di attendere ancora qualche decina di minuti per uscire a ridosso dell’alba. Non c’è più fretta; non avevo e non ho obiettivi di tempo, quindi sono tranquillo e so che arriverò molto prima della chiusura. Mi voglio godere l’ultima alba dell’UMTB.  

ore 5.42 – 8.38
Esco sul lungolago con un americano che corre abbastanza forte. Qualche passo insieme a lui e addio “I would, if I only could”; riduco l’andatura perché friggersi adesso sarebbe insensato. Usciamo dall’asfalto ed inizia un incantesimo di sorpassi che durerà sino a Martigny: due, quattro, otto, sedici, venti, trenta, cinquanta. Non riesco a capacitarmi di come in poco tempo sia possibile superare (o farsi superare) da tanti concorrenti. Sono abituato a trail di solitudine, a pochi e casuali incontri. Questa è folla e si sposa poco con la solitudine ed il silenzio del trail. Poco dopo l’inizio della discesa mi fermo perché con il giorno e la perdita di quota inizia a fare caldo. Via la giacca (ora sento per sempre) e ne approfitto per ungere abbondantemente il sedere con l’Homeoplasmina perché sento qualche pruritino e quindi per non incasinarmi la vita procedo. Mi trovo particolarmente bene con le Cascadia che ho indossato a Champex e volo letteralmente. Il fatto di raccogliere tanti “cadaveri” mi rende addirittura perplesso e mi chiedo se non c’è qualche errore di percorso, qualche intrigo, qualche cosa di strano che mi permette di andare a velocità tripla rispetto a tanti altri. Mi ritrovo al fondo valle nuovamente su asfalto e ne approfitto per togliermi la calzamaglia e le maniche lunghe. Adesso siamo nuovamente versione estiva e si comincia a sentire un inebriante profumo di vittoria. Si risale in modo inopinato dall’altra sponda su asfalto. Rallento perché l’euforia della discesa e dei mille sorpassi non vorrei dovesse sfociare in stanchezza e depressione. Due viticoltori giovani offrono vino (non, merci) e chicci d’uva (oui, merci). In breve lasciamo l’asfalto per inerpicarci su un sentiero ripido che non è molto chiaro dove porterà. C’è un cartello “Martigny”, ma noi andiamo dalla parte opposta. Non capisco più niente sul dove stiamo andando. Le balises però ci sono e non danno adito al minimo dubbio. Si sale, si scende e sotto una cittadina un po’ più grossa delle altre; sarà mica Martigny ? Giù in picchiata con stanchezza affiorante e dopo aver attraversato i binari della ferrovia, arriviamo al tendone del ristoro di Martigny. Una coca cola e nient’altro perché una orgasmica sensazione di finish comincia ad impadronirsi di me: Enrica non c’è, ma uscendo dal ristoro vedo la Stilo grigia; mentre tiro fuori il cell per chiederle “ma dove sei?” vedo lontano sul ponte Gianni che sta facendo due passi e che mi dice che Enrica e Marta dormono in macchina. Dormire ?!? No, adesso sono in rimontissima : 649-mo.

ore 8.38 – 10.40 
Un  rapido calcolo mentale: ci saranno ancora 2-2.200 mt. D+. Mi sembra uno scherzo dopo quello fatto sinora. La prossima tappa è Trient: adesso riesco a vedere con lucidità anche il “dopo”. Adesso nessun chilometraggio o dislivello mi possono fermare. Attacco la salita della Forclaz e riesco a tenere una media di 800 m/d/h. Mi spavento della grinta e della forza che ho ancora nei garretti. Proseguo nel trend di sorpassi lungo il sentiero che tira su verticale ancora una volta stupito dalla moltitudine di gente ogni qual volta incrociamo la strada asfaltata. Un bellissimo ristoro di un signore che mette un tot di bicchieri su un muretto riempiendoli di acqua fresca. Un piccolo, sincero, commovente tributo all’UTMB. In alto campanacci e tanta gente: il colle. Sento Enrica che grida il mio nome: una scossa che mi fa quasi correre su un tratto ripidissimo.
Scollinando attacco a correre forte: Trient è laggiù con la bellissima chiesa che mi aveva colpito quando avevo visto un vecchio filmato dell’UTMB. Trient è l’anticamera del paradiso. Volo e supero di slancio Marco Cattaneo con cui due anni fa avevo condiviso l’arrivo notturno del Valdigne. Riprendo i due bresciani, compagni di un tratto della discesa notturna in Val Ferret. Ultimi gradoni ripidissimi e la chiesa di Trient. Gente, applausi, un incitamento da stadio.

ore 10.40-10.47
Sorseggio con avidità l’ennesima coca cola. Penso che a breve non ne berrò più, perché di fronte a me non ci saranno più tappe, ma solo uno striscione, dopo il quale sarò costretto a fermarmi perché sarà finita. Il calore del ristoro di Trient lo ricorderò a lungo. 592-mo.

ore 10.47-12.22
Un millino scarso di dislivello per andare ancora più vicino al paradiso dei trailers. Fa caldo, supero subito una decina di concorrenti, fra cui un italiano che mi sembra di conoscere, ma la lucidità è ormai un concetto relativo. Fa molto caldo e più si sale più siamo esposti agli strali del mezzogiorno alpino. Siamo in tre: io, un francese ed uno spagnolo. Fastidio di pancia: decido che vale la pena scendere nei rovi per cercare di alleggerirsi in vista del paradiso. Niente, ma il fastidio continua. Verso la cima della Catogne si ripresenta il problema. Decido che vale la pena perdere altri 5 minuti. Niente ancora. Rientro sul sentiero e vengo fermato da un Napo Orso Capo che molto british mi chiede “Excuse me, are you heading to Vallassine?”. Gli chiedo di ripetere la domanda perché temo di non aver capito. Non la capisco nuovamente, ma intuisco che Vallassine dovrebbe essere Vallorcine e gli dico di si, tutti quanti stiamo andando a Vallorcine. Mi spiega sempre molto british che è molto stanco, ha la testa che non funziona molto, ha visioni e vorrebbe attaccarsi a qualcuno per essere sicuro di andare a Vallassine. Gli dico “no problem”. Mi ringrazia e mi dice che due suoi connazionali lo avevano invece mandato a cagare. Si chiama Robert e dimostra di avere ancora buona birra. 569-mo

ore 12.22 – 13.24
Finalmente l’ultima discesona. Scendiamo discretamente e Robert è una buona compagnia, anche se mentalmente diventa difficile organizzare un discorso logico che non sia “Mancherà tanto?” – “Boh?”, “Sei stanco?” “Insomma”. Chi adesso parlerebbe di Shakespeare oppure della politica estera inglese ? Un cartello dice Vallorcine 1.50. Pensavo molto meno e molto meno in effetti sarà. Un ultimo sentiero ripido ripido che sfocia in un pratone.
 Sotto tanta gente che ci aspetta. Mi sento chiamare, ma non riesco a capire chi è. Mi avvicino: ma è Massimo, il mio grande compagno di 7 ore di Valdigne 1 mese prima ! Max mi abbraccia, mi racconta del suo “dramma” a Les Condamines, mi allunga un mezzo bicchiere di birra che bevo con un sapore tutto particolare, un sapore meraviglioso, un sapore di traguardo. Enrica, Gianni, Marta, la famiglia di Max sono il pubblico personale che mi spinge verso Chamonix. Il papà di Max mi abbraccia e mi fa tenerezza; era il figlio che meritava questo abbraccio, perché nessuno più di lui avrebbe meritato di diventare finisher. 541-mo

ore 13.25 – 14.30
Mi cambio indossando la maglietta PdP con il tricolore del 150°. Devo fare bella figura a Chamonix. Parto per l’ultimo viaggio.
Ormai ci saranno 200 mt. di dislivello in salita e tutto piano e discesa sino all’apoteosi. Parto correndo, ma poi la lieve salita verso il Col de Montets mi suggerisce che è meglio mettersi al passo. Il caldo è implacabile, ma ormai è difficile avere sensazioni precise; la sfida è con il cronometro per arrivare sulle 40 ore e sotto la 500-ma posizione di classifica. Guai però a rovinare tutto adesso, anche perché le gambe cominciano ad essere rigide, la bocca è secca, i polmoni mi chiedono un po’ di tregua. Decido che cercherò di fare tutto con naturalezza, senza forzare. Poco prima di Argentière mi passa un francese, cerco di stargli dietro, ma faccio tanta tanta fatica. Argentière: l’ultimo bicchiere di coca cola e quasi 39 ore di gara. Mi dicono che non dovrebbe esserci più che 1 oretta, qualcuno dice 7 km. tutti in piano o leggera discesa.

ore 14.30 – 16.30
Riparto e “dopo” ci sarà solo più Chamonix. Sono stanco e alterno corsa a passo. I Drus e l’Aiguille du Midi occhieggiano, ma sono ancora lontani. Cerco di calibrare l’arrivo proprio sulla perpendicolare dell’Aiguille du Midi, pensando di scivolare sereno sul fondovalle.
Il problema è che sti francesi sono un po’ fissati con i sentieri balcone e infatti si inizia a salire, a scendere, a salire e a scendere. Le energie sono ormai ridotte al lumicino; le gambe fanno male e voglio correre dentro Chamonix. Mi metto al passo e l’orologio implacabile mi dice che probabilmente sforerò le 40 ore. Poco male: ripercorro mentalmente alcuni frammenti di gara, ma gli episodi sono talmente lontani che anche il ricordo diventa sfocato e difficilmente collocabile nell’arco temporale di gara. Purtroppo l’UTMB ti consegna un obiettivo che è quello di arrivare. Tutto il resto non riesce ad affrancarsi da questo imperativo: “essere un finisher”. Non riesci a goderti singoli momenti di gara come in qualsiasi altro trail perché il tutto sottende all’obiettivo principale. Il tutto distrugge il particolare, la fine demolisce il percorso, si confonde viaggio con arrivo. Tutti gli altri trailer sono messi come me: tutti stanchissimi, tutti marchiati dalle 4 stagioni incontrate e dal periplo del gigante. Un cartello che dice “Chamonix 2 ore 05 minuti” mi getta nello sconforto. So perfettamente che questi cartelli sono generosissimi, ma io non ce la faccio proprio più. Mi fanno male i piedi ed improvvisamente si mette a bruciare la parte interna delle chiappe. Sinora non era mai successo in gara, ma solo subito dopo l’arrivo. In pochi minuti la situazione precipita: il dolore è lacerante. Mi devo fermare: tiro fuori la pomata. Ne metto un po’, ma fa addirittura male l’applicazione. Provo a mettere delle foglie, peggio che andare di notte. Con un bastoncino provo ad allargare le chiappe per evitare lo sfregamento: un incubo. Mi siedo a terra, piantandomi aghetti nei palmi delle mani. Mi vengono le lacrime agli occhi, ma non per l’UTMB, ma per non sapere cosa fare in una situazione veramente imprevista. Provo una rabbia folle, cieca. Ho recuperato per 39 ore e adesso il bruciore al culo mi fa perdere tutto, forse anche la possibilità di arrivare. Mi rialzo, cammino allargando le chiappe, ma non posso pensare di arrivare in questo modo. Calcolo che ci saranno ancora 2 km almeno. Non può non esistere una soluzione. Mi risiedo e penso che se mi incazzo è ancora peggio: nessuno mi può aiutare. Svuoto a terra tutto lo zainetto: giacca a vento no, pantaloni lunghi no, tazza no, guanti no, questo no, quello no . Rimane poco, fra questo poco forse la fascia parasudore e parafreddo in lana di mohair potrebbe andare bene. Provo a metterla: sembra OK. Decido di fare di meglio: spalmo la crema sulla fascia e me la metto bene come fosse un pannolino. Sembra funzioni: due passi – OK. Dieci metri di corsa – OK. Dai che ci siamo e che arriviamo. Incredibilmente perdo il computo del tempo. Vedo che sono le 16 e 10, ma non riesco più a combinarla con l’ora di partenza e mi sembra che potrebbero essere 41 come 42 come 43 ore. Non ha più importanza: l’importante è che il rudimentale pannolino tenga e che possa arrivare: Ho un appuntamento con Enrica sul lungofiume all’angolo con l’hotel Alpina e non intendo ritardare oltre. Il sentiero sassoso lascia il posto ad una strada bianca in discesa. Si sente un altoparlante gracchiare, c’è gente che ci dice che è finita. Corro, ma con grande fatica. I muscoli sembra che siano sul punto di lacerarsi e l’ultima cosa che vorrei è una crisi di crampi in mezzo a Chamonix. Stringo i denti e trovo l’asfalto. Leo è la prima persona conosciuta che vedo. Mi corre insieme per almeno 2-300 mt. e poi non lo vedo più. Mi ritrovo sul lungofiume; il palazzetto della consegna pettorali, il deposito sacche, la mensa, l’infermeria. E’ incredibile: ce l’ho fatta. Dopo centinaia e centinaia di arrivi visti dal vero, in film, in foto, anch’io ho il brivido di passare in mezzo a due ali di folla festante e acclamante i finishers. Sono dentro e non dietro le transenne. Avevo sentito, letto e visto tanto sulla commozione all’arrivo: sono talmente distrutto ed anche un po’ arrabbiato che la commozione è l’ultimo dei miei pensieri. Sono contento che sia finita, non commosso per avercela fatta.  All’appuntamento Enrica non c’è; penso abbia voluto appostarsi da qualche parte per farmi qualche foto a sorpresa. E invece Enrica è in mezzo alle transenne che mi aspetta e che mi accompagnerà per gli ultimi 300 mt. dell’UTMB. Con lei sono felice e lei non si rende conto di quanto la sua presenza abbia voluto dire per farmi finire il viaggio. Ci abbracciamo e corriamo.
Chiacchieriamo e corriamo via via sempre più forte; una curva, un’altra, non ci sono più curve, solo un rettilineo, mani protese che applaudono e uno striscione che vuol dire “E’ finita”.

Per la fredda cronaca dei numeri ho finito l’UTMB in 41 ore 01 minuti 42 secondi, 531-mo su 2360 partiti e 1.131 arrivati.

Penso che adesso potrò sedermi un po’ senza pensare al “dopo”; restituisco il chip, mi restituiscono la cauzione, mi tolgono il secondo chip dal pettorale, mi consegnano il giubbotto del finisher. Una voglia intrattenibile di birra mi porta al chioschetto della piazza. Prendo una biere blanche du Mont Blanc ghiacciata ed affondo una sorsata lunga come l’UTMB. La birra è cattiva, lo stomaco è stordito, avviene una sorta di congestione e sono costretto a distendermi su una panchina in pietra, altrimenti corro il rischio di cadere a terra. Ho un dialogo simpatico con una coppia di francesi che vogliono a tutti i costi chiamarmi un medecin. Penso che i medecins abbiamo qualcosa di più serio da fare che non correre per un somaro che si è congestionato di birra ghiacciata. Gli arrivi di gente distrutta si susseguono ed è brutto vedere le bombole di ossigeno che si muovono nella piazza. Io sono sorridente, peccato che non possa alzarmi. E quando mi alzo compaiono dei dolori fortissimi a ginocchio, pianta del piede con vesciche enormi e uno stato di stordimento generale, per non parlare del sedere ancora leso, che so già che mi precluderà la possibilità di farmi una doccia ritemprante. Una goccia di bagnoschiuma o di sapone finita lì, provocherebbe uno sconquasso alla John Holmes.


Le gambe diventano assolutamente rigide; la rilassatezza dell’arrivo mi ha bloccato e faccio una fatica immane per arrivare in zona docce/massaggi dove ho un rendez vous con i compagni di viaggio. Enrica e Gianni mi lasciano su una panchina. Ritrovo Leo e Ale; commentiamo, ma siamo troppo stanchi per esprimere concetti con lucidità. Guardiamo gli arrivi dei concorrenti, di cui uno su tre completamente sbaricentrato per la fatica. Applaudiamo i finisher. Leo e Ale partono. Resto solo: il sole va giù e fa freddo: mi viene a trovare Katia Fori, autrice di una prestazione straordinaria. Rientrano Gianni e Enrica, ci dirigiamo alla macchina. Salgo e mi sdraio sul sedile posteriore. Ancora prima che mio suocero metta la terza, sono sprofondato in un grande, anzi in un ultra, sonno.

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